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20.03.2025

A different man e il talento di Sebastian Stan

di Gianmaria Tammaro

Al cinema dal 20 marzo con Lucky Red, il nuovo film di Aaron Schimberg è una riflessione profonda sull’essere umano e, più nello specifico, sul ruolo dell’attore. Giocano un ruolo fondamentale gli interpreti: Adam Pearson, Renate Reinsve e Sebastian Stan. L’approfondimento.

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A different man di Aaron Schimberg, al cinema dal 20 marzo con Lucky Red, offre una riflessione profonda sull’essere umano e, più nello specifico, sul ruolo camaleontico dell’attore. È costruito intorno a Sebastian Stan, alla sua faccia, al suo modo di stare in scena, e si divide tra toni più sottili e quasi accennati e toni più espliciti e volutamente esagerati. Quella che racconta è la storia di un aspirante attore, Edward (Stan), malato di neurofibromatosi: ha la faccia piena di tumori benigni, fa fatica a vedere, a parlare, e questo l’ha profondamente condizionato. Un giorno, gli viene data la possibilità di sottoporsi a una cura sperimentale. E quando il suo volto si trasforma, perdendo letteralmente pezzi di carne e pelle, la sua vita sembra – ed è importante sottolineare questo “sembra” – cambiare. Finalmente, pensa Edward, potrà essere sé stesso. Ma è qui che A different man pone il primo, importante interrogativo: chi siamo? Che cosa vuol dire “essere sé stessi”? Davvero la nostra faccia, e quindi il modo in cui ci presentiamo agli altri, è tutto ciò che ci definisce? O c’è dell’altro? C’è spazio, per esempio, per quello che decidiamo di fare e di essere?

Edward ottiene la parte nello spettacolo che la sua vicina, Ingrid (Renate Reinsve), sta scrivendo, uno spettacolo che è praticamente ispirato alla sua vecchia vita. E lo fa fingendo di essere un’altra persona. Quando però arriva Oswald (Adam Pearson), anche lui affetto da neurofibromatosi, Edward perde la parte, viene messo in secondo piano e un uomo che è completamente a suo agio con la sua faccia (Oswald, appunto) lo sostituisce. E allora c’è l’ennesima trasformazione. Edward impazzisce, perde il controllo e la fiducia in sé stesso. Diventa violento, ossessivo, costantemente in bilico. È un uomo senza più direzione, perso, confuso, messo con le spalle al muro dalla vita. Quello che credeva essere il suo più grande problema, e cioè il suo aspetto fisico, si rivela essere un non problema – o almeno, non un problema così grande come pensava.

Sebastian Stan riesce a riflettere tutti questi pensieri e tutte queste trasformazioni in modo estremamente istintivo, quasi naturale. Recita con il corpo, tenendo più o meno dritte le spalle, cercando una posizione più o meno morbida con la schiena, inclinando la testa prima su una spalla e poi sull’altra, stando sempre leggermente defilato, nascosto, tirato all’indietro. E questo è evidente durante la prima parte del film e, quasi specularmente, durante la terza. In mezzo, c’è una fase di transizione intensa, che passa tanto dalla cura e quindi dal mutamento fisico del protagonista quanto dall’arrivo di Oswald. L’insicurezza viene sostituita dalla spavalderia, la paura da una luce di speranza; la stessa voce viene fuori più chiara, calma e morbida.

Visto che buona parte della storia si svolge sul palcoscenico di un piccolo teatro newyorchese, A different man diventa, come anticipavo, anche una riflessione sulla recitazione, sullo stare insieme, sul dividersi i compiti e il seguire una sceneggiatura. E qui arriva la seconda, grande domanda: dove inizia il ruolo, dove la finzione, e dove inizia invece la vita vera. In un’iperbole che rischia di diventare pura retorica, potremmo dire che tutti, volenti o nolenti, siamo attori; che tutti, volenti o nolenti, finiamo per interpretare un ruolo. Proprio per il nostro desiderio di piacere agli altri e di trovare il nostro posto in contesti più o meno ricercati. Così facendo, però, rischiamo di dimenticare noi stessi: chi siamo davvero; cosa proviamo, cosa desideriamo, ciò che siamo riusciti a diventare nonostante tutto – nonostante un ambiente ostile, nonostante i pregiudizi; nonostante un contesto respingente.

Schimberg, in modo molto intelligente, gioca con gli stereotipi e i luoghi comuni. E poi li ribalta. È chiaro che il suo cinema è stato influenzato da altri autori (uno su tutti, proprio per questa sua schiettezza ironica, a tratti cinica, è Charlie Kaufman). Ma nella messa in scena trova la sua strada e la sua visione. Mostra sempre. Non si tira mai indietro. È esplicito ma non didascalico. Inquadra anche le cose più fastidiose e respingenti (come il suicidio di uno dei vicini di Edward). E non rallenta, non si tira indietro. E nella sua regia, che rimane così ferma e limpida, si può specchiare chiaramente il mondo che costruisce. E, soprattutto, i suoi attori. Adam Pearson è fenomenale per come si presta alle singole scene e per il carisma esplosivo che riesce a esprimere. Renate Reinsve sembra sempre divisa, sempre in divenire, meravigliosa e irraggiungibile, ma pure oscura e piena di contraddizioni.

Stan è il centro del film, e lo è fino all’ultima sequenza. Si piega, subisce, incassa. Diventa un termometro di sentimenti e piccole variazioni. Guardi la sua faccia, trovi i suoi occhi, e sai esattamente che cos’è successo o cosa, al contrario, sta per accadere. Lo aiuta il trucco e lo aiutano gli altri attori. Ma è evidente il suo talento nell’essere presente in ogni istante, nell’essere partecipe, mai spettatore, nell’essere costantemente pronto a offrire qualcosa alla camera che lo inquadra e lo cerca. I suoi sorrisi sono piccoli e striminziti. L’ansia che lo avvolge passa dalla linea decisa della mascella, dalla fronte che si distende e dallo sguardo che sembra quasi spegnersi. Annaspa, e non per modo di dire. Annaspa e cerca di rimanere a galla, di resistere, di non lasciarsi andare. E A different man, alla fine, parla proprio di questo: di quanto cambiare sia difficile, di quanto a volte sia addirittura impossibile e delle persone che, nonostante le buoni intenzioni, restano sempre le stesse. Perché oltre una faccia c’è molto, molto di più.