di Gianmaria Tammaro
Il 24, il 25 e il 26 marzo Lucky Red riporta al cinema il capolavoro di Miloš Forman in una nuova edizione in 4K. Non è solo l’occasione per riscoprire, o rivedere, un classico. Ma pure per riflettere sul talento inteso come valore e sulla mediocrità accettata come nuova normalità. L’approfondimento.
Amadeus di Miloš Forman (al cinema il 24, il 25 e il 26 marzo con Lucky Red, in edizione restaurata 4K) non è solamente un film sul legame che ha unito Mozart e Salieri. È qualcosa di più. È un film sul talento, quello vero, assoluto ed esplosivo, e sulla mediocrità che in qualche modo riesce sempre a resistere e a prevalere. Ieri come oggi. È un film sulla cultura del nostro tempo, sull’approssimazione con cui ci avviciniamo a tante, troppe cose, e sulla nostra incapacità di riconoscere la bellezza per ciò che è. Bellezza, appunto: abbacinante, totale, a volte persino eccessiva. Amadeus riprende in parte l’opera teatrale di Peter Shaffer, che si è occupato anche della sceneggiatura. È un racconto pieno di flashback e di ricordi, che trova nell’Antonio Salieri di F. Murray Abraham lo snodo narrativo principale.
Dopo aver tentato il suicidio, Salieri viene ricoverato in un manicomio e qui, stanco dei pensieri che continuano a tormentarlo, decide di confessarsi a un prete. Inizia da lontano, dalla sua infanzia. E già in questo momento comincia a paragonarsi a Wolfgang Amadeus Mozart (Tom Hulce): se lui ha trovato la musica dopo innumerevoli sacrifici, Mozart non ha mai conosciuto altro e ha potuto immediatamente coltivare il suo talento. Quando però suo padre muore, Salieri ha la possibilità di cambiare e di studiare, e diventa una delle figure di spicco della corte d’Austria. Finalmente pensa di essere felice, di aver trovato il suo posto. Ma quando incontra Mozart deve ricredersi: tutto quello che lui ha ottenuto a fatica, pregando, sacrificando e costringendosi a un duro lavoro, l’altro sembra averlo ottenuto naturalmente, come un’estensione di sé stesso. Un miracolo, praticamente. E Salieri non riesce a capire perché, com’è possibile che Dio abbia dato così tanto a un ragazzino viziato e superficiale.
Forman va avanti e indietro, e usa intelligentemente il punto di vista di Salieri per descrivere contraddizioni, invidie e lotte politiche intestine. Mozart è un genio, ma è pure estremamente arrogante. E per questo viene osteggiato dalla corte e dai consiglieri dell’Imperatore. Scrive opere magnifiche, ma vengono criticate («ci sono troppe note»). Non trova il successo, non quello che meriterebbe. E soffre. E Salieri, invidioso, ne approfitta: comincia a intessere la sua trama, e gira intorno al compositore come un avvoltoio. Questa, però, è solo la superficie del film di Forman. In realtà, il vero tema, il vero scontro, si trova altrove. Si trova, per esempio, nella ragionevolezza di Salieri, che capisce – e lo capisce abbastanza velocemente, anche se non è disposto ad ammetterlo – di non essere talentuoso come Mozart. Si trova nel ruolo e nella potenza della musica, nella sua capacità di esprimere concetti ampissimi e universali senza però utilizzare parole o frasi senza fine. E si trova pure nel contrasto continuo, sociale, tra genio e mediocrità, tra talento e approssimazione, tra pura creatività e nera invidia.
Salieri si autoaccusa di aver ucciso Mozart, e lo fa per un motivo molto semplice: sa di aver contribuito alle difficoltà che ha dovuto affrontare; e proprio per questo soffre. Soffre perché, da amante della musica, sa di che cosa è stato privato il mondo intero con la morte di Mozart. Alcune cose, rispetto alla storia vera, sono diverse. Salieri, per esempio, era sposato. Nel film di Forman, invece, fa voto di castità. Ma il punto non è l’aderenza alla cronaca del tempo. Il punto è, come dicevo all’inizio, il ragionamento che viene portata avanti su talento e mediocrità. E proprio verso la fine il Salieri di Abraham sembra abbracciare la sua natura, riconoscerla: sono il signore dei mediocri, dice. E ride. Ride in mezzo al manicomio, mentre le persone intorno a lui urlano, ondeggiano e strepitano.
In Amadeus c’è pure una riflessione profonda sulla religiosità, intesa come insieme di regole e di convinzioni, e laicità, intesa, al contrario, come puro slancio artistico e creativo. Mozart era troppo per la sua epoca. Troppo moderno, troppo sensibile, troppo bravo. E Salieri, che non si perdeva nemmeno una delle sue opere, lo sapeva. E per questo lo invidiava. E non capiva. Perché lui, perché non io: se lo ripeteva come un mantra; si tormentava, riempiendo la sua mente di congetture, supposizioni e letture estreme della realtà. La tragedia umana sconfina rapidamente nella tragedia creativa: ciò che viene negato all’uomo – e può essere riconoscimento, soddisfazione o successo – viene negato anche all’artista. E l’artista che non si sente apprezzato è un artista a metà, che deve faticare il doppio, e insistere. Ma è difficile, specialmente quando vieni isolato e abbandonato dai tuoi pari.
Attenzione, però: Forman non prova nemmeno per un momento a dipingere Mozart come un santo. O come una vittima. Lo inquadra, lo mette a nudo; e lo rivela per ciò che è: un ragazzino schiacciato dalla presenza del padre, costretto a sposarsi, incapace di mantenere rapporti duraturi, di leggere la stanza, e così ubriaco di sé stesso da non vedere niente e nessun’altro. Salieri è umano. Umano nel senso più ampio e profondo del termine. Salieri fa quello che fa per invidia, certo. Ma anche perché vede il talento e lo riconosce, e si dispera per il modo in cui viene trattato. Se c’è una cosa che Salieri ama, è la musica nella sua totalità. È pronto a mortificarsi per resistere, per avere il suo spazio; e spera, spera con ogni fibra del suo essere, di diventare immortale grazie al suo lavoro. Ma sa, e lo dice anche al prete che incontra, che non sarà questo il caso. Sa che è di Mozart che si parlerà in futuro.
Amadeus è stato elogiato per la messa in scena, per la cura nei costumi, nelle scenografie e nelle coreografie e soprattutto per la colonna sonora firmata da Neville Marriner. Eppure c’è una ricchezza evidente anche nelle interpretazioni di Abraham e Hulce: quando sono insieme, quando sono separati; quando le loro facce – così diverse e uniche – si piegano per l’eccitazione o la tensione, per l’illuminazione di un’idea o per la sofferenza del mancato riconoscimento. Quello di Forman è un film solido, imponente, curato sotto ogni aspetto. E che funziona esattamente per questo motivo. Perché non sottovaluta niente.
È una corsa vertiginosa tra passato e presente, tra ricordi e idee, tra ammissioni e dati di fatto; ed è pieno di musica, di note, di vibrazioni. Talento contro mediocrità, immaginazione contro imposizione, tradizione contro innovazione. Italiani, francesi, tedeschi. L’opera con il balletto, senza balletto, l’opera che racconta la vita intera grazie all’unione di più voci che si sovrappongono e che non sembrano dire niente di importante. E che invece suonano come sentenze. La musica da camera e quella suonata nelle corti. E poi la consapevolezza di fare tutto, ogni cosa, per un unico motivo: per la bontà dell’arte. Perché l’arte esiste – sopravvive, anzi – anche senza pubblico e riconoscimento. E la sua verità, alla fine, trova comunque un modo per esprimersi.