di Gianmaria Tammaro
La passione per il giornalismo, il liceo, le prime esperienze e i primi viaggi. Dal podcast Polvere, fatto con Chiara Lalli, a Stories di Chora Media. E ancora: Il Foglio, gli Esteri e che cosa vuol dire fare informazione oggi.
Tra l’11 e il 12 luglio del 2023 ho intervistato Cecilia Sala. Era appena rientrata dall’Ucraina, e non era ancora uscito il suo libro, L’incendio. Ho deciso di raccogliere le due parti dell’intervista e di ripubblicarla in versione integrale per provare a fare un po’ di chiarezza su Cecilia Sala e sulla sua professionalità: il mio è un modo per presentarla a quei lettori che non hanno mai avuto a che fare con lei, i suoi articoli o i suoi podcast. In questa intervista, ci sono sia spunti personali che racconti del passato. Ho eliminato qualunque premessa e qualunque prologo proprio per lasciare spazio unicamente alle sue parole. Rispetto alle altre interviste, in questa viene usato il tu. È molto lunga e non ci sono né incisi né fotografie.
Com’è andata in Ucraina?
«Non so come si possa rispondere a questa domanda... È andata bene, direi. Poi dipende dal punto di vista».
Dal tuo?
«Giornalisticamente sono successe delle cose importanti, come il quasi golpe in Russia. Non è stato un momento di stanca».
In Ucraina questa notizia come è stata accolta?
«Con una certa contentezza. Se i russi, anziché fare la guerra con gli ucraini, cominciano a farsela tra di loro, significa che i loro soldati e le loro armi si spostano. E questo aspetto, per gli ucraini, poteva rappresentare decisamente un vantaggio. È stata una buona notizia, ma è durata poco. Poi, certo: alcune conseguenze positive per l’Ucraina possono ancora esserci».
Riesci mai a staccare? O il tuo lavoro coincide quasi completamente con la tua vita?
«Ci sono dei momenti in cui puoi non rispondere a determinati messaggi. Ma la verità è che no, non si smette mai. Puoi decidere di eliminare il superfluo, tutte quelle cose accessorie, extra, rispetto a registrare una puntata del podcast o scrivere un articolo. Le notizie non hanno domeniche e non hanno ferie d’Agosto. E se ti perdi un pezzo, poi non capisci il resto. Non puoi decidere arbitrariamente di ignorare alcune cose e di concentrarti su altre».
Come inizi la tua giornata?
«Leggendo i giornali, prima di tutto».
E per Stories, invece, che cosa fai?
«In quel caso, dipende».
Da che cosa?
«Se sono in Italia, a casa, o se sono in trasferta. E può cambiare anche se resto a casa. Perché, a differenza del giornale, dove mi occupo di determinati temi come l’Ucraina e l’Iran, per fare Stories devo fare attenzione a tutto».
Tutto?
«Il mondo intero, sì. Ovviamente è impossibile, e lo so. Però ci provo e devo essere pronta a occuparmi di argomenti e paesi che copro di meno o quasi mai. Se c’è un’incursione israeliana a Jenin o se, invece, c’è un litigio clamoroso nel parlamento di Berlino, io sceglierò sicuramente la prima. Stories è condizionato da me e da quello che conosco. Ma è molto più vario rispetto al lavoro che faccio per Il Foglio, e quindi, a seconda della direzione che prenderà la storia quel giorno, dovrò studiare tantissimo».
In che senso?
«Se si tratta di una vicenda indonesiana, dovrò leggere la stampa locale, che di solito non leggo. E chiederò aiuto a Simone Pieranni, che fa parte del team di Chora e che è estremamente preparato sull’Estremo Oriente. Se invece si tratta di una storia ucraina, sentirò le fonti che ho lì per capire com’è andata o non è andata. Quindi il tipo di lavoro che farò cambia a seconda del luogo. Per fare una cosa del genere, c’è bisogno di una rete di contatti importante, anche tra i colleghi. Quantomeno per avere qualcuno pronto a correggerti e a darti un parere».
È una cosa abbastanza rara, questa collaborazione tra giornalisti. Tra chi segue gli Esteri è la normalità?
«Si tratta di sentimenti umani, e i sentimenti umani sono ovunque, in tutti i settori. Le gelosie, spesso, sono tra chi copre le stesse storie. Se invece si fanno cose diverse, non c’è conflitto. In più, c’è da dire che prima della caduta di Kabul e della guerra in Ucraina gli Esteri erano decisamente più bistrattati: non c’era lo stesso spazio, e non si faceva nessuna gara per uscire. A volte è quasi un miracolo quando un pezzo su una parte remota del mondo ha visibilità sulla carta. Tra chi si occupa di Corea e chi si occupa di Iran tutto sommato ci si vuole bene».
Un giornale che era molto attento agli Esteri era La Stampa di Molinari. Poi, ovviamente, c’è Il Foglio con cui collabori.
«Anche La Repubblica, a un certo punto, ha cambiato approccio. Comunque sì, su Il Foglio c’è spazio per qualsiasi tipo di storia. E non solo per quelle di cui mi occupo io. Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, c’è sempre stato almeno un pezzo in prima pagina. In generale, gli Esteri non mancano mai».
Quali altri giornali leggi per rimanere aggiornata?
«Tutti, e non perché sono figa. Ma perché è questo il mio mestiere».
Non c’è un giornale in particolare?
«Se c’è sul New York Times, vale come una conferma».
Quindi parliamo di testate estere.
«Sì, testate estere. Però ho abbonamenti a quasi tutte le testate, italiane e straniere. Ho abbonamenti, per dirti, anche a giornali brasiliani».
Questo, secondo me, è un aspetto che viene molto sottovalutato. Soprattutto quando si danno consigli agli aspiranti giornalisti. La prima cosa è leggere.
«Sì, certo. Ma il motivo per cui si fa questo mestiere è per dare spazio a ciò che non trovi, che non leggi. Se fai il giornalista, a prescindere dall’argomento di cui decidi di occuparti, dal tema o dalla sezione, lo fai perché vuoi trovare una cosa nuova, che non è uscita altrove e che hai solo tu. Chiaramente non è possibile farlo tutti i giorni, ed è per questo che è importante vedere pure quello che fanno gli altri».
Alla nostra generazione sono mancati i grandi maestri? Parlo, ovviamente, di quelli che, in redazione, ti riprendono, ti correggono e ti spiegano come si fa. Tu hai lavorato con Santoro: lui è uno dei grandi maestri?
«Io non ho avuto un grande maestro nel senso che intendi tu, quello più tradizionale. Non sono andata a La Repubblica o al Corriere e per dieci anni ho avuto la possibilità di guardarmi attorno, di osservare da vicino i fuoriclasse e di imparare direttamente da loro. È una cosa che non ha avuto nessuno della nostra generazione. Però io ho avuto, in modo più frammentato, dei maestri».
Che cosa intendi per maestro?
«Una persona generosa, pronta ad aiutarti. Una persona che non si tira indietro e che non si accontenta. Una persona che ti dà consigli e che vuole vederti migliorare».
Diventa fondamentale il desiderio di fare bene il proprio lavoro. A prescindere dallo spazio che si occupa.
«È una cosa che ho notato molto, ti dico la verità. Spesso i capi si limitano a dare una consegna, a dirti cosa fare, e poi sono fatti tuoi. Sei tu che devi fare tutto. E non c’è nessuna vera direzione. Io ho incontrato delle persone come Santoro che citavi prima e Paola Peduzzi al Foglio: persone generose. Santoro, secondo me, è un grande maestro di televisione. Ha sempre prestato attenzione a tutto. Dalla scenografia dello studio al tono che usi, dal modo in cui ti muovi all’aspetto tecnico».
La forma, in quel periodo della tv, contava.
«C’era una confezione, nelle sue trasmissioni, che rendeva i contenuti offerti qualitativamente più accattivanti e affascinanti. Sul merito di quello che Santoro dice, io non sono d’accordo quasi su niente. Anzi, forse proprio su niente. Però l’impegno che ci metteva era incredibile: a volte, pensa, usciva alle 11 di sera dalla redazione. E secondo me questa cosa, oggi, manca all’informazione video. I programmi si assomigliano. Poi, certo, ci sono delle eccezioni. Pensa a Formigli. Ma anche lui, Formigli, viene dalla scuola di Santoro».
E invece che cosa pensi del giornalismo dei quotidiani? Lì c’è la stessa cura?
«È difficile da dire, e anche in questo caso, se posso, dipende. I giornalisti dei cartacei hanno un problema in più: hanno meno tempo e sono i primi, di solito, ad arrivare su una notizia. Chi prepara una trasmissione, di solito, parte proprio dai quotidiani. Nei talk le persone si confrontano su notizie che sono state trovate e dette altrove. E poi i cartacei devono coprire molte più cose».
E non c’è modo per ricontrollare tutto.
«Una volta i correttori di bozze, queste figure meravigliose, erano decisamente più diffusi. Al Foglio ce n’è ancora uno. Mentre il caporedattore controlla il contenuto di quello che hai scritto, il correttore si assicura che non ci siano errori e refusi. E poi dà un’uniformità anche al modo di scrivere nomi e parole particolari. Oggi non ci sono gli stessi soldi di prima, e queste figure professionali non sono più così presenti».
Il futuro, per te, è online? O i cartacei continueranno ad avere spazio?
«Quello che io mi domanda sul digitale, sul digitale scritto, non sui social, sui podcast o sui video, è: conviene? Con il cartaceo, anche con copie ridotte, delle entrate ci sono. E la raccolta pubblicitaria online, invece? Come va? Quanti click devi fare per riuscire a guadagnare qualcosa? Non deve essere facile».
Non lo è, certo. Però c’è chi, come il New York Times, ha puntato sugli abbonamenti. E sta vincendo.
«Però il Times ha un pubblico potenziale molto più ampio: pubblica in inglese».
Allora ti faccio l’esempio de Il Post, che sta andando molto bene.
«Ci è voluto un po’ di tempo, però, per arrivare a questo punto».
Da qualche parte bisognerà partire.
«Ma certo, prima o poi si comincerà a investire di più sul digitale. Qualche stipendio, però, si può pagare grazie alle copie cartacee».
Ma tu che cosa preferisci, sentire la carta tra le dita o riesci ad accontentarti della versione digitale di un giornale?
«Guarda, nella mia quotidianità mi accontento delle versioni digitali. Perché anche lì posso vedere come vengono posizionate le notizie. D’estate e nei weekend compro i giornali di carta. E con la carta, ti dico la verità, mi concentro di più. Me li ricordo meglio, quei pezzi. Se leggo sul tablet, mi arrivano tantissime notifiche. Detto questo, non credo che si tornerà indietro: non ci saranno di nuovo le consegne a domicilio dei giornali».
La prima volta che hai pensato di fare la giornalista, se non sbaglio, è stato quando andavi al liceo. Perché?
«Facevo politica studentesca, ero rappresentante d’istituto nel mio liceo. Mi interessavano le questioni di attualità. Secondo me, il liceo pubblico è una grande palestra per stare nel mondo e per coltivare una passione politica. Almeno per me è stato un momento di grande formazione. Anche quando bisognava organizzare assemblee, autogestioni e occupazioni. È stata quest’esperienza, se vuoi, che mi ha portato a leggere i giornali. Probabilmente, se avessi vissuto la mia adolescenza in modo più privato, non avrei fatto lo stesso percorso. Il nostro liceo era veramente molto attivo, sotto questo punto di vista».
Che liceo era?
«Il Cavour. Ero rappresentante d’istituto insieme a Valerio Carocci del Piccolo America. Anche per lui, se ci pensi, è stato importante. Quello che fa oggi viene anche da quel tipo di esperienza».
A te cosa piaceva?
«Scrivere sul giornalino scolastico, leggere i giornali e parlare in pubblico, confrontarmi con gli altri. Avevo capito che mi avrebbe fatto piacere fare questo lavoro. Poi, sì, c’è stata un’epifania in particolare».
Dimmi.
«È stata anche l’origine del podcast Polvere, quello che ho fatto insieme a Chiara Lalli. A un certo punto, nel mio liceo, ho incontrato Giovanni Scattone. Per tutti era un professore di filosofia, uno di quelli amati e apprezzati, il professore simpatico. Io sono nata nel ‘95, e non conoscevo l’omicidio di Marta Russo, che è del ‘97. Quindi non sapevamo di Scattone e del suo coinvolgimento in quel caso. Quando sono arrivati gli esterni di Lotta Studentesca, i giovani di Forza Nuova, con uno striscione con su scritto “Scattone assassino” e hanno provato a impedirgli di entrare a scuola, ho cominciato a capire che mi mancavano degli elementi».
E a quel punto che cosa hai fatto?
«Ho parlato con lui, ho scoperto Marta Russo e mi sono appassionata al suo caso. Scattone era finito al Cavour, il liceo di Marta, non per sua scelta: gli era stato assegnato quel posto. Inoltre, aveva finito di scontare la sua pena e aveva tutto il diritto di fare il suo lavoro. Altrimenti nessuna condanna avrebbe senso».
In che modo hai approfondito il caso di Marta Russo?
«Ho iniziato a studiare. Ricordo che avevo stampato la sentenza del processo nell’ufficio di mia madre. Ho comprato dei libri, e sono andata all’archivio del Senato per recuperare i giornali di allora. Ho letto tutte queste cose con curiosità. E mi sono resa conto che alcuni elementi non tornavano. Soprattutto il modo in cui il caso era stato raccontato e il modo in cui erano stati condotti il processo e le indagini. Mi sono fatta una promessa, in quel momento».
Quale?
«Mi sono ripromessa di tornare ad occuparmi del caso di Marta Russo da adulta, da – speravo – giornalista. E così è andata».
Polvere è stato fondamentale nella rivoluzione dei podcast in Italia.
«Siamo stati tutti influenzati da Serial, alla fine. Era un podcast incredibile, fatto da professionisti. È stato il primo per me: quello che ha segnato un prima e un dopo».
Perché?
«Perché non metteva insieme solo pareri o chiacchiere; era un podcast prodotto in un certo modo, come un film in audio. Dietro c’era un grande lavoro di scrittura, c’erano delle musiche incredibili. Era tutto pazzesco, in Serial. E ogni aspetto era curato. E poi dimostrava una cosa fondamentale».
Cioè?
«Che si poteva fare un contenuto del genere, di cronaca nera, senza puntare alla rabbia o alla voglia di vendetta, senza cercare la bava alla bocca o il sensazionalismo. Che si poteva fare un contenuto del genere ribaltando la prospettiva, parlando degli accusati. Per me è stata una svolta culturale».
Dopo il successo di Polvere, l’Huffington Post, che l’ha distribuito, vi ha chiesto un altro podcast del genere?
«Non proprio».
È finita lì?
«Sì. Però poi Polvere ha avuto altre vite, è diventato anche un libro».
C’era una firma che, da liceale, cercavi sempre? Una che non vedevi l’ora di poter leggere sui giornali?
«Non risponderò a questa domanda (ride, ndr)».
Che rapporto hai con la tua voce?
«Non sono proprio bravissima con la respirazione. Anche perché poi, quando uno parla normalmente, fa più pause, si prende più tempo; non va così dritto, così filato. Se parli ad alta voce e scandisci meglio le parole, è stancante: molto stancante. Però questa è la mia voce, e mi va bene così».
Di solito, quando registri, è buona la prima o ti affidi anche al montaggio?
«No, no. C’è il montaggio. Se mi impappino la rifaccio e il montatore taglia».
In generale, e non solo nel podcast, per te qual è la cosa più importante? L’intuizione che ti porta a una storia o il ritmo che, poi, serve per raccontarla?
«Sono due cose diverse. Il ritmo riguarda il come, e l’intuizione riguarda il cosa. Secondo me, a volte è più importante una storia che si presta a essere raccontata in modo efficace che una storia determinante per le sorti del mondo».
In che senso?
«Indubbiamente, e ti faccio un esempio, una telefonata tra Xi Jinping e Biden è più importante della storia di un ucraino, un iraniano o di un afgano. E nel giorno in cui c’è, la telefonata tra Xi Jinping e Biden è una notizia assolutamente da coprire. Assolutamente, ripeto».
Però?
«Di quella telefonata non sapremo molto: non ci saranno dettagli e non ci saranno fonti precise. Che storia diventa, così? Certo, ci puoi speculare sopra, in modo molto teorico, ma il risultato finale non è eccezionale. La storia di un afgano in fuga, anche se è meno rilevante rispetto alla telefonata tra Xi Jinping e Biden, è molto più potente ed efficace. A me piacciono le storie di cui riesco a trovare i dettagli. Le storie fumose, basate sulle ipotesi, rischiano di rendere tutto più confuso».
Ti è mai capitato di raccontare una storia così, fumosa, basata sulle ipotesi?
«Quando sono stati abbattuti i primi droni sul Cremlino, non avevamo nessuna conferma sulla loro provenienza. Immaginavamo fossero ucraini, ma non c’era alcuna certezza. Io avevo delle fonti, e mi sono basata su quelle fonti. Sapendo come stava procedendo la guerra, una piega del genere era abbastanza prevedibile. In più, avendo seguito per molto tempo il generale Budanov e il ministro ucraino Fedorov, il più giovane del gabinetto di Zelensky, avevo altri dettagli a disposizione».
Per esempio?
«Di queste due persone so tutto; so anche che animale domestico hanno e come si chiama. E questo rende la storia molto più tridimensionale, molto più appassionante».
Quindi cos’è che conta, alla fine?
«I dettagli. E sono sempre i dettagli che fanno di un podcast un podcast e non, banalmente, un programma radio».
Ti capita mai di avere la sensazione di star perdendo altro?
«Nella vita, dici? O sul lavoro?»
Nella vita.
«Tantissimo, certo».
Ed è qualcosa con cui si riesce a convivere?
«Io ne soffro, ti dico la verità. Non riesco a far finta di niente, a dare per scontato che questa sia la normalità. Ci penso spesso. L’estate, sotto questo punto di vista, non aiuta per niente».
Se non sbaglio, il tuo primo lavoro come giornalista è stato a VICE.
«Sì, è stata la mia prima esperienza».
E ti occupavi dei reportage che andavano in onda su Sky.
«Esatto».
Che cosa pensi del suo fallimento? Era una cosa prevedibile per un modello del genere?
«Diciamo che VICE in Italia è entrata in crisi due mesi dopo che me ne sono andata io. Che ci fossero dei problemi a livello locale, e anche internazionale, era abbastanza evidente. Da una parte, comunque, mi dispiace».
Perché?
«Perché VICE era una cosa unica. Aveva un’identità molto forte, e uno stile originale e giovane. Mi dispiace perché spesso, invece, funzionano cose più piccole e anonime».
In che senso “ti dispiace”?
«Sembra quasi che avere un’identità così forse, così definita, sia un elemento negativo. E per me non è assolutamente così».
È stata colpa del mercato?
«In un certo senso sì. Quando una realtà è così caratterizzata, diventa difficile – se non impossibile, addirittura – adattarsi a quelle che sono le domande e le richieste del mercato. Detto questo, penso anche che VICE fosse molto legata a una generazione particolare e a un momento storico. E quindi quello di avere una vita breve, per quanto favolosa, era un rischio da mettere in conto».
Quando sei partita per il Venezuela, per il tuo primo reportage, per chi stavi lavorando?
«Per Michele Santoro».
E la redazione di Santoro non era interessata a un reportage sul Venezuela?
«Ma guarda, in quel preciso istante nessuno era interessato al Venezuela. Dopo, se ti ricordi, anche il Corriere della Sera ha aperto sul Venezuela. Però, in generale, una redazione televisiva italiana si occupa difficilmente di una storia del genere. Santoro mi ha permesso di prendermi le ferie per partire. E nemmeno questa è una cosa così scontata».
Il reportage, poi, è uscito su L’Espresso e in video per Arte. Ma tornando a quel momento, a quella decisione così netta, che cosa ricordi? Come ti sei sentita?
«Ho un problema con i viaggi lunghi, in aereo, perché non posso fumare. Pensa che una volta ho cambiato un diretto con un viaggio con scalo solo per potermi fermare e fumare».
E dove hai fatto scalo?
«A San Paolo, in Brasile. Una città gigantesca, con milioni di abitanti. Ovviamente agli arrivi non c’era una sala fumatori, e per fumare sono dovuta uscire. E per uscire ho dovuto superare tutti i controlli. Quattro ore di code, quattro, per fumare».
Al di là di questo aspetto, prima di arrivare in un posto come il Venezuela o l’Afghanistan, hai paura? C’è il rischio, secondo te, di rimanere assuefatti da questo tipo di esperienze?
«Può creare assuefazione, sì. Ma è una cosa particolare. L’adrenalina che ti investe, se vuoi, è il sintomo di una paura sana. Quando ti avvolge, sei più reattivo, più lucido; vedi più cose, sei più forte, più scattante. Non arriva sempre nello stesso modo. La prima volta è molto diversa da, che ne so, la quarantesima volta che la provi. E se il pericolo aumenta, ti assicuro che non è una cosa che cerchi».
Ti chiedevo, però, del ricordo della prima volta che ti sei trovata in una situazione del genere.
«È stato decisamente più potente, certo. Ed era abbastanza nuova come sensazione».
Ti è mai capitato di essere travolta da quell’altro tipo di paura, quella non buona, prossima al panico?
«Per fortuna no. C’è stata, però, una volta in cui ero a Kabul, in Afghanistan, e i talebani hanno sparato e hanno colpito le finestre dell’hotel in cui mi trovavo».
E che cosa hai provato?
«Non sapevo cosa pensare, ti dico la verità. Non sapevo di chi fossero quei colpi. Lo Stato Islamico era ancora in Afghanistan, e noi ci trovavamo nel luogo in cui si erano raccolti gli ultimi occidentali che erano rimasti nel paese. Per dieci minuti, ho avuto paura. Perché c’era l’ipotesi concreta di un attacco».
Dove ti trovavi?
«Ero in bagno, e non potevo fare assolutamente niente. Né controllare quello che mi stava succedendo né scappare. E quello sì, è stato quasi un attacco di panico».
In altre situazioni è differente?
«Certo. Innanzitutto non sei costretta in uno spazio chiuso, e dal fischio di un colpo puoi capire il suo raggio d’azione. Quindi hai un altro tipo di controllo su te stessa e su quello che ti sta succedendo intorno».
Come dicevi anche tu, sei arrivata in Afghanistan in un momento particolare, quando gli occidentali venivano evacuati. E sei diventata una dei pochi giornalisti italiani sul campo.
«In quel momento non era chiaro niente. Arrivare tramite voli diretti era impossibile. La Repubblica Afghana era appena collassata, il presidente era scappato. Nessuno ti dava un visto. Non c’era un minimo controllo. Per entrare nel paese, bisognava passare dal confine con l’Uzbekistan, attraversare il Ponte dell’Amicizia costruito dai sovietici».
E poi c’erano i talebani.
«Non sapevamo come si sarebbero comportati con i giornalisti stranieri. Con il passare delle ore abbiamo capito che si sarebbero comportati bene, ma solo per dare un’altra impressione, una di apertura».
Per quale motivo?
«Volevano avere gli aiuti internazionali. In quella fase, ripeto, era difficile: era caos puro. Era il momento in cui gli afghani si attaccavano alle ruote degli aerei americani per scappare».
Quando non lavori, quando rimani in Italia, che cosa fai?
«La spesa. Un po’ di esercizi. Leggo. Faccio delle passeggiate, e vado a cena con gli amici».
Quando si va all’estero, quando si parte per esempio per l’Ucraina, ci si muove in gruppo?
«No, no. A volte ti capita di essere con un fotografo e con un fixer, un contatto locale. Ma non ci si muove in gruppo con gli altri giornalisti. Nei posti brutti, quelli isolati, dove non prende il telefono, è importante avere qualcuno con sé. È una misura di sicurezza».
Perché?
«Se vieni ferito e c’è qualcuno con te, puoi farcela. Se sei da solo, invece, rischi di morire anche se non ti trovavi in una situazione così difficile».
Hai mai pensato di spostarti all’estero e di lavorare per una testata straniera?
«Non ci ho mai pensato, no. Non seriamente, almeno. Non parlo l’inglese come parlo l’italiano, quindi sarebbe estremamente difficile riuscire a citare tutti i dettagli e tutti gli elementi per me importanti. Finirei per parlare in modo più asciutto, più diretto. E poi, ti dico la verità, io sto bene».
Bene?
«Sì, bene. Mi piacciono Chora e Il Foglio; sono contenta di lavorare con loro. Credo che Chora abbia fatto una cosa veramente nuova, mandandomi come inviata podcast. Il Reuters Institute mi ha intervistata per questo, perché rappresento un unicum nel panorama giornalistico. Dalla comunità dei giornalisti stranieri, poi, Il Foglio è abbastanza conosciuto: è piccolo in termini di copie, ma è famoso tra gli addetti ai lavori».
Sei felice, insomma.
«Lo sono, sì. Prima dovevo prendere le ferie per poter andare nelle zone di crisi e poterle raccontare. Adesso vengo pagata per farlo. Sono grata, oltre che felice».
E la televisione? Se non sbaglio, sei una grande appassionata.
«Mi è dispiaciuto molto sapere delle dimissioni di Lucia Annunziata. Il suo programma era uno dei pochi a fare una copertura puntuale anche degli Esteri. In questo momento, per il resto, non ci sono programmi che seguo molto. Però sì: un giorno mi piacerebbe tornare a lavorare in televisione».
Che cosa ti piace in particolare della televisione?
«Il linguaggio video. E poter raccontare le storie in quel modo».
Che rapporto hai con il tempo?
«Penso che sia sempre poco, e ne vorrei di più. Faccio un po’ fatica a far stare insieme le cose che devo fare; arrivo sempre in affanno. O sono lenta io o sono troppo impegnata: chi lo sa. Non mi capita mai di avere due ore libere, di finire prima. Insomma, ho un rapporto conflittuale con il tempo. Non andiamo molto d’accordo».
Chi è, secondo te, il giornalista?
«È una persona molto curiosa e molto sincera, non neutrale, che ha una sua idea e che si sente coinvolta da ciò che vede e vive; non è una persona che rimane indifferente, e non le si può chiedere di non prendere una posizione».
Curiosità e sincerità vanno a braccetto?
«Secondo me, solo chi è davvero curioso è pronto per essere anche sincero. E viceversa: se esprimi genuinamente i tuoi interessi, la tua curiosità sarà piena, totale».
Tu, quindi, non sei neutrale.
«No, non lo sono. Ti faccio un esempio pratico, così mi spiego meglio».
Dimmi.
«Io penso che in questa guerra gli ucraini siano le vittime e che Putin sia il carnefice. Mi rendo conto, però, che a un certo punto possono accadere determinate cose e che pure gli ucraini possono sbagliare e smettono di essere solo vittime. Pensa, per esempio, all’attacco al ponte di Kerch. Oppure quando si sono diffuse voci e testimonianze che accusavano gli ucraini di essere gli artefici del sabotaggio del gasdotto North Stream. Il North Stream serve anche ai tedeschi, che stanno aiutando attivamente gli ucraini».
La conclusione qual è?
«Che bisogna essere pronti ad analizzare ogni cosa, in ogni momento, e che è fondamentale non tenere posizioni nette, definitive. Se sei davvero curioso, come ti dicevo, vuoi capire; e quando capisci sei sincero».
Esiste una verità assoluta, secondo te?
«Alcune volte sì. Esiste una verità assoluta. Altre volte no: non ci sono gli strumenti necessari per avere certezze. Intendiamoci: questa verità di cui parliamo è una verità che riguarda fatti specifici, eventi singoli; non l’intero universo e le sue leggi. E noi che non siamo romanzieri o poeti, dobbiamo parlare di questo: di fatti».
Quanto è importante e difficile continuare a fidarsi degli altri, quando c’è una crisi di fiducia così profonda?
«Per un giornalista fidarsi delle proprie fonti è relativamente semplice, se non stiamo parlando di un ingenuo. E di solito, ecco, i giornalisti non sono degli ingenui. Quando conosci la tua fonte, sai anche quali sono i suoi interessi. Se parla un politico, lo fa per un motivo. Spesso, le fonti possono essere anonime; ma nell’anonimato non perdono la loro affidabilità. Anzi. E tu, giornalista, devi proteggerle. E soprattutto ascoltarle».
E il rapporto di fiducia con il lettori?
«Secondo me, sottovalutarli è insultante e sbagliato. Non sono stupidi, i lettori. Sanno come valutare quello che viene detto, e sanno quando fidarsi».
Rispetto a questa cosa, a questo legame di fiducia, tu ti senti responsabile?
«Sono responsabile di quello che scrivo e di quello che registro».
Non ti capita mai di tornare su un pezzo, di tormentarti per qualcosa che hai scritto o detto?
«A volte stai male, certo. Il giorno in cui è esplosa la diga di Nova Kachovka in Ucraina, per dirti, io ero sicura fossero stati i russi. E all’inizio tutti l’avevano dato per scontato. Perché avevano già minacciato di farla esplodere. E perché era appena partita la controffensiva ucraina. Io ero convinta di quello che avevo detto».
Però?
«Nelle ore successive le cose sono leggermente cambiate, e si parlava per la prima volta di altre ipotesi. E io, per questa incertezza, ho sofferto molto. Non credo di poter condizionare il mondo con quello che scrivo e dico, ma mi sento responsabile, sì. Perché chi ti segue si fida e ti crede in buona fede».
Cos’è che ti fa stare più male, sapere di essere in errore o l’aver dato un’informazione sbagliata?
«Il nostro lavoro si basa molto sul capire le cose, e io soffro se ho capito fischi per fiaschi di un argomento di cui mi occupo e che penso di conoscere. La figura di merda pubblica dura poco e si può superare. Quelli che ti odiano sono persi in partenza; quelli che invece si fidano di te sono pronti ad ascoltarti e ad accettare le tue scuse. Puoi riparare con loro».
E con te stessa, invece? Puoi riparare?
«La figura di merda te la ricorderai per sempre, e farà da monito. Ma è giusto così».
La noia ti fa paura?
«Paura? No, assolutamente no. In realtà, anzi, ammetto che mi piacerebbe potermi annoiare per un po’».
Per un giorno?
«Anche per una settimana, volendo».
La foto di copertina, scattata da Claudia Rolando, risale al luglio del 2021, quando Cecilia Sala ha moderato l’incontro con JR e Mathieu Kassovitz per la rassegna “Il Cinema in Piazza” organizzata dalla Fondazione Piccolo America.