di Gianmaria Tammaro
Dalla primissima idea a uno sviluppo durato anni, dall’importanza della verità nei film alla sua visione del racconto e della messa in scena. E poi l’incontro con James Franco, protagonista di Hey Joe, al cinema dal 28 novembre con Vision Distribution, il rapporto con Napoli, il lavoro con gli attori non professionisti e la cura nella ricostruzione e nello studio. L’intervista.
In Hey Joe, al cinema dal 28 novembre con Vision Distribution, Claudio Giovannesi ha cercato ancora una volta la sua verità. Che non vuol dire, come spiega, rincorrere a tutti i costi un’idea di realismo più teorica che concreta. In un film, la verità coincide con la sua credibilità. Fare cinema, per Giovannesi, è una ricerca costante. Per Hey Joe, ha rigirato ogni scena decine di volte, alternando il punto di vista del protagonista con le sue reazioni davanti a quello che gli succede e gli viene detto. È un film diviso in due epoche, tra la seconda metà degli anni Quaranta e gli anni Settanta. E c’è stato, dice Giovannesi, un lavoro certosino nella ricostruzione e nello studio.
Tutto è partito da un’idea di Maurizio Braucci, sceneggiatore di Hey Joe con Massimo Gaudioso e lo stesso Giovannesi. James Franco, che è stato scelto per il ruolo principale, interpreta un uomo spezzato, sopravvissuto a tre guerre e che ora, nella sua vita, non trova né pace né tranquillità. Tornare a Napoli per lui significa provare a guarire le ferite che ha accumulato nel corso degli anni e incontrare un figlio che non ha mai conosciuto.
Hey Joe è un film complesso, perché in sé contiene tante cose e tanti aspetti: c’è il cinema di Giovannesi, c’è la sua visione del racconto; c’è l’impegno pazzesco degli attori (insieme a Franco, vanno citati Francesco Di Napoli, Giulia Ercolini e Aniello Arena), e c’è l’intelligenza artigianale del mestiere: prima che con i costumi e la scenografia, gli anni Quaranta e Settanta sono stati ricreati attraverso la fotografia firmata da Daniele Ciprì. Hey Joe, dice Giovannesi, si è offerto come una possibilità.
Perché ha deciso di raccontare questa storia?
L'idea di questo film è nata grazie a uno spunto di Maurizio Braucci. Stava pensando a una storia che aveva sentito ai Quartieri Spagnoli, dove vive. E questa storia ci è sembrata immediatamente interessante non solo per poter mettere in scena il rapporto tra un padre e un figlio, ma pure per raccontare una determinata epoca. Un’epoca in cui, in qualche modo, Napoli veniva mostrata come il confine tra il mondo di prima e il mondo che avevano portato con sé gli americani. Il valore sentimentale del rapporto tra padre e figlio, in questo modo, diventava una metafora efficace della nostra attualità. Insomma, ci siamo mossi su due livelli: quello della grande storia, che tiene insieme situazioni diverse, e quello della piccola storia, concentrata sul protagonista.
Nel 2016 lei è stato a Napoli per girare due episodi di Gomorra – La serie, nel 2019 è tornato per La paranza dei bambini e ora si prepara all’uscita di Hey Joe. Che tipo di rapporto la lega alla città?
Ogni volta che ci sono tornato è stato per un motivo diverso. La prima volta ci sono venuto perché me l’aveva chiesto Stefano Sollima. La seconda volta, invece, su suggerimento di Roberto Saviano, che mi voleva alla regia de La paranza. E adesso, con Hey Joe, ci sono tornato per l’idea che mi ha dato Maurizio. Napoli è un luogo che mi appassiona moltissimo. Perché si può sempre raccontare in maniera diversa, e questi tre progetti che lei citava lo dimostrano chiaramente: sono tutti e tre ambientati nella stessa città, eppure conservano qualcosa di unico.
È più facile lavorare con un attore professionista o con un non attore?
Onestamente credo di avere sempre lo stesso approccio. Come ho lavorato con James Franco così ho lavorato con gli attori non professionisti. Ciò su cui mi concentro sono le reazioni che scaturiscono da quello che accade in scena, e questo vale per chiunque. Un attore professionista ha degli strumenti precisi, in più. Però, se ci riflette, in Hey Joe anche James si confronta per la prima volta con qualcosa che non aveva mai fatto prima.
E cioè?
Deve recitare in italiano. O almeno, deve farlo in alcune scene.
Per buona parte del film, Franco è tutto ciò che vediamo: la sua faccia, i suoi occhi; il modo in cui incassa ciò che gli succede e che gli viene detto. È una specie di sacco da boxe per la storia.
È quello che le dicevo prima: ciò che mi interessa sono le reazioni. E concentrarmi su Franco mi ha permesso di catturare le sue reazioni davanti a un mondo che non conosceva, non così bene, e davanti a una lingua che non è la sua lingua. Hey Joe è raccontato dal punto di vista del protagonista. Ed è stata una scelta obbligatoria.
In che senso “obbligatoria”?
Già in sceneggiatura non abbiamo messo scene che non partono dal punto di vista del protagonista. È un film in prima persona, per prendere in prestito un modo di dire della letteratura. E questa cosa ci interessava perché volevamo mostrare il mondo, Napoli, da una prospettiva specifica. Tutto doveva passare attraverso il protagonista. L’abbiamo fatto per costruire un rapporto empatico più forte con il pubblico, e anche per restituire alla storia un ulteriore spessore. Con James Franco, abbiamo ripreso quello che diceva Steve McQueen, che non voleva solo recitare ma reagire.
Seguendo questa idea e lavorando molto con non attori, c’è stato spazio anche per l’improvvisazione. E con improvvisazione non intendo fare quello che si vuole, quando si vuole. Ma vivere fino in fondo la scena, preparandosi anche all’imprevedibile. Avete dovuto ripetere molte volte le scene?
Girando sempre dall’inizio alla fine, senza staccare, rifaccio tutte le scene almeno una decina di volte. Però non le rifacevamo tante volte per James o per qualcun altro degli attori. Le rifacevamo tante volte per catturare tutto quello che succedeva, ogni singolo personaggio. In generale, direi che siamo stati fortunati.
Perché?
Quando ho incontrato James per la prima volta, gliel’ho detto: dovrai recitare in italiano. E lui mi ha chiesto: e come faccio con l’accento? E io gli ho spiegato che andava bene, che il suo personaggio era stato a Napoli solo per un paio di anni prima di ripartire e che, una volta tornato, avrebbe avuto la possibilità di migliorare. Proprio com’è successo a lui, a James, nel corso delle riprese. Quindi c’era anche questa equivalenza.
E com’è andata quando si è dovuto confrontare con non attori?
Per lui non ci sono mai stati problemi. Ammetto di aver avuto qualche dubbio, all’inizio. Perché in alcuni momenti avrebbe recitato con persone prese letteralmente dalla strada. E invece è andato tutto bene. Era assolutamente permeabile a quello che accadeva in scena. Quando gli parlano in napoletano, lui davvero non capisce. E davvero prova a rispondere con quel poco di italiano che sa. Una volta arrivato a Napoli, James ha voluto conoscere la città, ma non come un turista qualsiasi. Voleva conoscere la vera Napoli. Uno dei suoi film preferiti è Gomorra di Matteo Garrone, e aveva visto anche La paranza, su suggerimento di Sean Baker. Era arrivato con un’idea molto, molto precisa. E così, la prima sera, insieme a Egidio Giordano, che è il capogruppo delle comparse, siamo andati in posti estremamente popolari. E James, con Egidio, ha fatto amicizia. E la cosa incredibile è che Egidio non parla una parola di inglese. Questo rapporto con Napoli James lo portava anche sul set. E io lo vedevo.
In un’intervista a Variety, Franco ha parlato delle grandi differenze che ha trovato tra i set italiani e i set americani. In particolare, si è soffermato sul numero di macchine presenti in scena.
Ma questo è il modo in cui lavoro io. In America, a Hollywood, hanno tantissime camere per riprendere ogni punto di vista. Poi, al montaggio, rimettono insieme il film. Per me, invece, la camera non è un elemento determinante: deve limitarsi a riprendere ciò che succede. Io prima faccio accadere la scena e solo dopo aggiungo la macchina. In questo modo, alle varie sequenze viene restituita una certa verità. Da una parte abbiamo una camera che si concentra sul punto di vista del protagonista, e dall’altra una che riprende la sua faccia e come reagisce a ciò che accade.
Perché ha scelto James Franco per il ruolo del protagonista?
Questa è un’idea che ho avuto chiara fin dal primo momento, fin da quando abbiamo scritto il soggetto. Volevo un attore che avesse una certa vicinanza con il personaggio. Un po’ come succede in The Wrestler: lì Darren Aronofsky ha scelto Mickey Rourke per la differenza netta che c’era con l’idea di sex symbol che le persone avevano di lui. E lo stesso, in un certo senso, succede anche qui.
Su che cosa si voleva concentrare?
Volevo mostrare il corpo trasformato di James. Non è più lo stesso dei film di Raimi, per esempio; ha un fascino diverso. In più, James ha la mia stessa età e questo mi ha aiutato enormemente. Perché ci ha avvicinati. E la vicinanza, per dirigere un attore americano, è fondamentale. Prima di Hey Joe, James è stato fermo cinque anni. E poi è un attore che seguo da tanto e che è davvero bravo. Ha lavorato molto in quel cinema indipendente americano che adoro. Ha collaborato con Gus Van Sant, con Werner Herzog e Harmony Korine. Lui stesso, come regista, ha diretto film molto belli. Quindi c’è stato anche questo.
Franco ha accettato subito?
Ha accettato dopo otto ore. E il merito, come le dicevo prima, è stato di Sean Baker, che aveva scritto una recensione estremamente lusinghiera de La paranza dei bambini su Letterboxd. L’unica complicazione, diciamo così, è stato lo sciopero del sindacato degli attori americani: abbiamo dovuto aspettare sei mesi prima di iniziare a girare.
Un’altra cosa che fa spesso con i suoi film è circondarsi di attori esordienti. In Hey Joe, per esempio, c’è Giulia Ercolini, che interpreta Bambi, una donna che lavora in un locale notturno napoletano e che si dà anche al contrabbando.
L’idea di Bambi, ci tengo a precisarlo, è stata di James: sul set è stato lui a dire che Bambi forse era una femmina e non un maschio. Io mi sono limitato, diciamo così, a seguire lui e Giulia. Comunque sì, è una cosa che succede abbastanza di frequente. Ma mi creda: non c’è nessuna intenzione di lanciare carriere. Lavoro spalla a spalla con Chiara Polizzi, la mia casting director e una delle mie collaboratrici più preziose. È lei che mi aiuta a trovare questi attori. Nel caso di Hey Joe, ci serviva un’interprete come Giulia, proprio per rendere più credibile la storia. Un’attrice già famosa, già consolidata, avrebbe rischiato l’effetto Sophia Loren: prima del personaggio, arriva l’attrice. Qui volevamo un livello di verità importante.
Francesco Di Napoli ha detto che avevate già in mente lui per il ruolo del figlio del protagonista durante la scrittura. È stato così?
Quando abbiamo confermato James, abbiamo pensato immediatamente a Francesco. Erano passati cinque anni da La paranza dei bambini, e Francesco era cresciuto. E, le dirò, somigliava anche tanto a James. Lavorare con Francesco, per me, è come avere un abito su misura. Lui ha iniziato con me, e conosco molto bene il suo modo di recitare. E mi piace, e ne parliamo in continuazione. Lo abbiamo chiamato una volta, gli abbiamo fatto fare tre scene e lo abbiamo subito confermato.
Me lo diceva anche prima: per lei conta molto che nei suoi film ci sia una certa verità.
Sì.
In che modo definirebbe questa “verità”?
Molti usano il termine realismo. Ma il realismo è un’altra cosa, e ha delle implicazioni quasi sociologiche. La verità sottintende che quello che stai vedendo è credibile senza nessuna grande riflessione sulla messa in scena. E non è una cosa di testa ma di pancia. Ci sono grandi registi che lavorano con la finzione, senza alcuna pretesa di mascherarla, e li adoro. Per me, per il mio modo di raccontare, è importante raggiungere il livello massimo di credibilità. E non basta, banalmente, accendere la camera e buttarla in mezzo alla strada, tra le persone. Non funziona. Oramai siamo tutti talmente abituati a essere ripresi che il nostro comportamento, davanti a una camera, cambia. In Hey Joe, pur con la sua credibilità, il livello di finzione è altissimo: la storia è ambientata negli anni Settanta. Il New Jersey è stato ricreato in Calabria.
Questa abitudine che abbiamo sviluppato nell’essere ripresi e nel farci riprendere rende più difficile trovare non attori spontanei?
La differenza vera la fa l’attitudine psicologica e caratteriale degli esseri umani che racconti. Il problema è l’autorappresentazione. Ed è quello che rende un non professionista inadatto a un film. Il non professionista migliore è quello che si trova a metà, che non è affetto né da un narcisismo eccessivo né da una timidezza debilitante, e che quando sta davanti a una macchina da presa sa comportarsi come se non ci fosse. Non è facile, ma succede. In questo momento in cui chiunque ha una telecamera sul proprio smartphone, l’autorappresentazione è ovunque.
Un altro nome che torna spesso, nei suoi film, è quello di Daniele Ciprì, direttore della fotografia. Con lui che rapporto c’è?
Lavoriamo insieme da quattro film. Durante le riprese quasi non parliamo. Tutto la preparazione la facciamo prima. Daniele sa esattamente come giro e che cosa mi interessa. È come stare in famiglia. In più, prima di essere un direttore della fotografia, Daniele è uno dei miei registi preferiti. Per Hey Joe, rispetto ad altri film, c’è stata una preparazione più lunga. Siamo partiti con l’obiettivo di raggiungere il massimo della credibilità anche nelle riprese. Per girare le scene nel ‘44, abbiamo deciso di utilizzare il 16 mm a colori. Abbiamo preso come riferimento alcune immagini di repertorio che si vedono nel film. La seconda guerra mondiale è una delle guerre più filmate. Di solito, però, sono riprese in bianco e nero. Gli americani, quando sono arrivati in Italia, avevano la possibilità e le risorse per girare in 16 mm a colori.
Per gli anni Settanta, invece, come avete fatto?
Se con il ‘44, più o meno, ce la siamo cavata, con gli anni Settanta è stato più complesso. Abbiamo lavorato sulle immagini dei film che sono usciti nel tra il ‘70 e il ‘72. E abbiamo ricostruito quell’estetica. Abbiamo guardato i film con Mario Merola e Piedone lo sbirro. Con Daniele, poi, abbiamo ritrovato questa pellicola, Ferrania, che esalta gli azzurri. C’era, però, un problema.
Quale?
Girare tutto il film così, in pellicola, sarebbe stato estremamente faticoso e costoso. E quindi abbiamo deciso di girare in digitale, sapendo che poi avremmo stampato il film in pellicola 50 ASA. E così abbiamo fatto. Quindi, insomma, c’è stato un lavoro molto complesso dal punto di vista della fotografia. Aggiungo: in alcune scene, come quella del battesimo, ci sono riprese in Super8 e in altre ci sono scene in tubo catodico.
Perché ci è voluto così tanto per finire Hey Joe? Sono passati cinque anni dall’uscita de La paranza dei bambini.
Nel 2019, ho dovuto seguire La paranza in giro per il mondo, visto che – fortunatamente – era stata venduta in 30 paesi. Gli attori erano tutti, o quasi tutti, minorenni e non potevamo caricarli di questa responsabilità. E poi non le nascondo che mi faceva piacere poter seguire la vita del film. Durante la pandemia, sempre con Gaudioso e Braucci, abbiamo scritto una sceneggiatura tratta da Vita di Melania Mazzucco per un film che, ora, è in preparazione con Indiana. Dopodiché abbiamo iniziato a scrivere Hey Joe. E ci abbiamo messi quasi due anni. Una cosa che, oggi, sarebbe impossibile da fare con i tempi e le scadenze delle piattaforme. Questa era una storia che aveva bisogno di approfondimento e di studio.
Da che cosa siete partiti?
Da La pelle di Curzio Malaparte, Napoli ‘44 di Norman Lewis e La galleria di John Horne Burns. Per me, è stato difficilissimo lavorare al protagonista, che è un veterano di tre guerre. Io non ho fatto nemmeno il militare. Non sapevo assolutamente niente di veterani. Così abbiamo dovuto intervistare veterani americani per avere un’idea più chiara di quel clima e quell’ambiente. Poi ci siamo documentati sulla base NATO, sul contrabbando e sulla storia del quartiere. Per trovare il cast, ci sono voluti sei, sette mesi. E c’è stato anche, come le dicevo prima, lo sciopero del sindacato americano.
Ci vorrà di meno per Vita?
La sceneggiatura è già pronta, ma si tratta di un film molto grosso. Finanziariamente non è ancora pronto.
La Strada o Accattone?
Madonna, ma sono due dei miei film preferiti… Allora, di pancia scelgo Pasolini. Ma in bianco e nero. E anche per Fellini scelgo il Fellini in bianco e nero. Per me Accattone, Mamma Roma e Il Vangelo secondo Matteo sono i film più importanti di Pasolini. Lo sceicco bianco, La strada e Le notti di Cabiria, invece, sono i miei film preferiti di Fellini. Anora di Sean Baker, se ci pensa, è Le notti di Cabiria. C’è la stessa innocenza, ed è quello che mi piace.
Ancora una volta torna Sean Baker. Vi siete mai incontrati?
No. Io ho saputo della recensione di Sean Baker solo dopo le riprese, mentre giravamo il backstage. Ho sentito James parlarne e mi sono informato, e mi ha fatto conoscere Letterboxd.
Prima non lo conosceva?
Per niente. Mi sono registrato e ho risposto a Sean Baker, che tra l’altro chiedeva suggerimenti su come recuperare Fiore.
E lui che cosa le ha detto?
Il fatto è che io ho commentato dopo cinque anni. (ride, ndr) Non so nemmeno se ha letto quello che ho scritto.
Un altro dei personaggi principali di Hey Joe è indubbiamente Napoli, con le sue strade, i suoi colori e – soprattutto – con le sue contraddizioni.
Ed era necessario, per me, farla venire fuori. Senza due scrittori napoletani, sarebbe stato impossibile. In più, Massimo è molto più grande di me. E lui si ricordava benissimo diverse cose della città. Siamo andati alla ricerca delle persone che avevano vissuto quell’epoca. Le ragazze che stavano con gli americani e che parlavano un inglese perfetto, i localini, i contrabbandieri.
Che cosa avete scoperto?
Che gli americani venivano idealizzati, come portatori di benessere. E che, proprio per questo, venivano truffati. L’americano, nel nostro film, pensa che chiunque voglia andare a vivere in America. Ma non è così. E questa cosa ce l’ha raccontata una vecchietta che abbiamo incontrato. Ha avuto due figli con un americano, e quando l’americano le ha proposto di trasferirsi negli Stati Uniti lei ha detto di no. «Ma c'aggia fa' in America?»
Nonostante il periodo in cui è ambientato, Hey Joe è un film estremamente attuale. Era importante, per lei, riuscire a costruire un legame tra passato e presente?
Fondamentale. È quello che credo debbano fare i film d’epoca. Devono risuonare sull’oggi. Altrimenti è un banalissimo esercizio calligrafico. In Hey Joe non mostriamo la guerra, ma mostriamo le conseguenze della guerra. E le conseguenze della guerra riguardano soprattutto chi rimane. Oggi ci sono molti fronti aperti, molti scontri, molte guerre. E ciò che vediamo è esattamente questo: l’impatto che la violenza ha su tutti, non solo su chi combatte. Sui figli, sui bambini, sugli innocenti. Ed è una cosa che va avanti a lungo, per generazioni intere.
Le fotografie sono di Greta De Lazzaris. Nella foto di copertina, da sinistra a destra: James Franco, Claudio Giovannesi e Francesco Di Napoli.