di Gianmaria Tammaro
Dall’incontro con il produttore Gaetano Di Vaio alla decisione di scrivere la sceneggiatura di Ciao Bambino, in sala dal 23 gennaio. Dall’influenza de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders alla scelta del bianco e nero. E poi la ricerca estenuante degli attori, l’esperienza di lavorare con suo padre, il cinema come incontro tra due estremi e l’incredibile sforzo di pazienza che viene richiesto ai registi esordienti. L’intervista.
Dice Edgardo Pistone che per riuscire a finire Ciao Bambino, il suo primo film da regista, al cinema dal 23 gennaio con FilmClub Distribuzione e Minerva Pictures, ci sono voluti quasi tre anni. Perché prima ha dovuto trovare la forma della storia, unendo due soggetti diversi e scegliendo il Rione Traiano come ambientazione; poi ha dovuto cercare i suoi attori, e infine ci sono state le riprese, il montaggio e la post-produzione. Il risultato è un’opera intensa, ricca, girata completamente in bianco e nero, con due protagonisti (Marco Adamo e Anastasia Kaletchuk) bravissimi. La storia di Ciao Bambino è una storia di crescita e di consapevolezza, dove i fatti della vita – gli amici, l’amore, la famiglia; i progetti per il futuro – non vengono né esaltati né, al contrario, mortificati. Succedono. Capitano. Arrivano.
Resiste una verità di fondo importante, che permette al film di liberarsi da qualsiasi etichetta e classificazione – più o meno pasoliniano, più o meno innovativo – e di essere fino in fondo sé stesso. Per Pistone il cinema ha bisogno di un’idea centrale. Non può essere una rincorsa costante tra spunti e influenze; deve trovare il suo asse. C’è bisogno, sottolinea, di preparazione e convinzione. Perché il set è un luogo caotico, e senza una guida si rischia di non riuscire a dire ciò che si vuole dire. In Ciao Bambino ci sono la sensibilità e la sensualità dei corpi, la franchezza dell’innocenza e anche la spudoratezza di chi, dalla vita, non ha mai ricevuto niente. C’è quella drammaticità non soffocata, non mediata, che avvolge ogni singolo istante. E non c’entrano né la speranza né la tristezza. Come dice Pistone, tutto si riduce alla fragilità.
Qual è stato il punto di partenza di Ciao Bambino?
«Ripercorrere la genesi di un progetto come questo significa fare i conti con i ricordi. Però se ci ripenso oggi, se ripenso a quel momento in cui ho cominciato a lavorare a Ciao Bambino, mi sembra un momento molto disperato».
In che senso “disperato”?
«Venivo da un altro film, uno che era stato sviluppato e scritto ma che non aveva trovato finanziamenti. I produttori mi avevano detto che era troppo ambizioso e troppo difficile da montare economicamente. Anzi, mi avevano detto che era un film troppo intellettuale. E quindi, a un certo punto, ho deciso di scrivere un film minuscolo, tutto girato a casa mia, dove avrei potuto gestire da solo le risorse. All’inizio, volevo produrlo proprio io. E già allora avevo immaginato di lavorare con non attori, con mio padre e di ambientare la storia al Rione Traiano».
Ci è voluto molto tempo per arrivare a questo punto?
«In realtà no, è stato abbastanza veloce. Io e Ivan Ferone abbiamo scritto il copione nel giro di tre, quattro settimane. Era una storia che sentivo dentro di me, che conoscevo molto bene. E come spesso mi capita, è nata dall’unione di due soggetti diversi. Uno raccontava la storia di questo ragazzino che si misura con la sua eredità, mentre l’altro si concentrava sull’incontro sentimentale che questo stesso ragazzino fa con una prostituta».
E quanto tempo ci è voluto, invece, per chiudere ogni aspetto del film?
«Circa tre anni».
Perché hai deciso di ambientare Ciao Bambino al Rione Traiano?
«Se faccio uno sforzo di onestà intellettuale, devo dirti che ambientare la storia al Rione Traiano mi ha aiutato innanzitutto da un punto di vista produttivo. E questo perché la fase di preparazione ho finito per affrontarla da solo, quasi in autonomia. Conoscevo il posto e sapevo dove andare. Dal punto di vista artistico, invece, mi sembrava il luogo ideale dove muovermi, perché Ciao Bambino ha delle note autobiografiche forti. Io sono nato e cresciuto al Rione Traiano, e ancora ci vivo. E poi a me pare uno spazio perfetto per raccontare i sentimenti. Faccio fatica a vedere gli sfondi come scenografie; vedo gli sfondi come paesaggi interiori. E visto che mi interessa mettere in scena la malinconia, il vuoto e la solitudine, il Rione Traiano è diventato un riflesso di questa necessità».
E perché usare il bianco e nero?
«È stata una scelta espressiva. A me piacciono i film che mettono la verità degli esseri umani al centro del racconto, e con il bianco e nero dirottare l’attenzione verso i sentimenti è stato più semplice. Volevo evitare qualunque tipo di confusione o di fraintendimento. I film girati a Napoli vengono spesso visti in un certo modo, con connotati specifici e particolari. Ecco, io non volevo questo; volevo che Ciao Bambino conservasse la sua natura romanzata, più libera, vicina per quanto possibile alla poesia».
Quanto ha influito su questa scelta il tuo colpo di fulmine con Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders?
«Tantissimo. Il cielo sopra Berlino è un film che, quando lo vedi, ti lascia dentro un senso di smarrimento e di spaesamento molto forte. Ed è un senso che, se ci riflettiamo, riguarda tutti quelli della nostra generazione. Nel 2008 si ripetevano sempre le stesse cose: i giovani non hanno futuro, i giovani non hanno speranza. E quel sentimento negativo ha finito per creare quasi un blocco. Il cielo sopra Berlino è stato come una risposta per me. L’ho visto senza cercarlo, quasi per caso. Wenders, poi, dice una cosa fondamentale; dice che il mondo è a colori, ma la realtà è in bianco e nero. E per quanto sia difficile da comprendere razionalmente, è un concetto in cui non riesco a non ritrovarmi».
Come hai trovato i protagonisti di Ciao Bambino?
«È stato un processo lungo. Ho avuto una casting bravissima, che si chiama Silvia Chella e che mi ha aiutato molto. Forse, in totale, ci abbiamo messo quattro o cinque mesi per finire. È stata una ricerca selvaggia, non sistematica. Non so dirti se per limiti nostri o per varie sfortune».
Sfortune di che tipo?
«Quando abbiamo cominciato con la nostra ricerca, le scuole avevano appena chiuso, fuori facevano 40° gradi e incontrare qualcuno era quasi impossibile: erano tutti al mare. Quindi è stata faticosa, sì, ma secondo me alla fine siamo riusciti a trovare degli attori fantastici, pieni di talento, che dopo questa esperienza hanno anche deciso di provarci seriamente. Parallelamente, abbiamo fatto una specie di laboratorio. Senza alcun metodo preciso, ma con l’obiettivo di far nascere un’alchimia tra i ragazzi».
Anche per quanto riguarda i due protagonisti, Marco Adamo e Anastasia Kaletchuk?
«No, loro due ho provato a tenerli separati. Non volevo che fossero troppo complici. Nel film dovevano venire fuori la loro timidezza e la difficoltà nel conoscersi e nello stare insieme».
In Ciao Bambino ci sono alcune scene dove i protagonisti – tutti ragazzi, tutti adolescenti – sembrano liberi: scherzano, si prendono in giro e riflettono ad alta voce. Quanto spazio hai lasciato all'improvvisazione?
«Nessuno. Era tutto scritto in sceneggiatura, e prima di girare abbiamo provato più e più volte. Volevo raccontare la storia di Ciao Bambino esattamente nel modo in cui l’avevo immaginata. Improvvisare avrebbe significato mettere a rischio ogni cosa, a cominciare dall’impostazione cinematografica».
In questo film c’è anche tuo padre, Luciano Pistone. Com’è stato dirigerlo?
«È stato complicato».
Perché?
«Perché partivo dal desiderio infantile di poterlo finalmente controllare. Sono sempre stato vittima della sua vitalità e della sua energia. E questo, alla fine, è stato motivo di conflitto. Ma questo conflitto ha generato una tensione che nel film c’è, si nota e che ha aiutato il racconto. E poi credevo un’altra cosa».
Dimmi.
«Che questa esperienza potesse essere terapeutica per entrambi».
E lo è stata?
«In parte sì».
Ciao Bambino è pieno di immagini stupende, che sanno immortalare la forza e l’energia della giovinezza. Ti ci è voluto molto per costruirle?
«Io credo che per far funzionare le cose su un set, dove ci sono tante persone e dove si rischia costantemente di farsi travolgere dal tempo che passa e dal caos, sia fondamentale prepararsi e studiare tutto nei minimi dettagli. È indispensabile avere un’idea di quello che si sta facendo. Quindi sì, mi ci è voluto molto per costruire queste immagini. Più che storyboard, io disegno delle piantine con una prospettiva dall’alto per anticipare i movimenti della macchina. L’ho fatto in due momenti diversi: durante la preparazione e il giorno prima di girare una determinata scena. Un’altra cosa che mi ha aiutato è stata scattare delle fotografie durante i sopralluoghi. Mi ha messo nella condizione di scegliere le inquadrature migliori, dando a queste stesse inquadrature una certa coerenza estetica. Per me non ha senso cercare inquadrature fini a sé stesse, che funzionano da sole; serve sempre tenere in mente il film nella sua totalità, con il suo equilibrio. Spesso vediamo dei film che sono sbilanciati; io, invece, volevo avere un asse».
Che cos’è fondamentale fare?
«Creare un mondo coerente, con una sua idea di estetica e, come ti dicevo, con un suo equilibrio».
Quante cose sono cambiate dagli anni dell’Accademia di Belle Arti a Napoli?
«Un po’ di cose. Adesso, in qualche modo, mi sento più solo. In Accademia, invece, è difficile sentirsi soli, perché trovi sempre qualcuno che ha una visione simile alla tua, che ha gli stessi sogni, magari la stessa passione. In Accademia il cinema era un’attività del gruppo, collettiva».
Quanto è difficile riuscire a girare la propria opera prima?
«Devi essere un atleta della pazienza. Non voglio farla troppo tragica, perché questo rimane un lavoro da privilegiati, però devi essere pronto a delusioni costanti e a mettere in discussione la tua idea. Devi essere anche bravo nel capire che il problema spesso non sei tu, ma il sistema, chi ti sta attorno, che non riesce né a darti gli strumenti che ti servono né ad aiutarti come si deve».
E cosa succede a quel punto, quando si avverte questa mancanza?
«Molti registi finiscono per fare film ruffiani, proprio per andare incontro alle necessità dei produttori».
Ciao Bambino è stato uno degli ultimi film prodotti da Gaetano Di Vaio.
«Sì».
Che cosa ricordi del vostro primo incontro?
«Che nella sua semplicità fu un incontro straordinario. Intorno al 2010, Bronx Film aveva gli uffici alle spalle di piazza Dante, su salita Pontecorvo. Mi ricordo che insieme a due miei amici, Rosario Cammarota, direttore della fotografia di Ciao Bambino, e Pasquale Di Sano, decidemmo di provare ad andare da loro per chiedere un appuntamento. Avevamo bisogno di un cavalletto e di una luce per le riprese del nostro primo corto. Ci diedero tutto senza problemi. Gaetano disse di aiutarci. Successivamente, Rosario e Pasquale sono stati assunti da Bronx Film per altri lavori, mentre io, che stavo cercando di girare il mio primo film, sono stato messo da parte. Però ricordo con gioia l’assoluta disponibilità di Gaetano. Noi eravamo tre ragazzini, e ci diedero ogni cosa senza farsi problemi. Non ci conoscevano. Oggi un sostegno del genere sarebbe impensabile».
Chi preferisci tra Paolo Sorrentino o Martin Scorsese?
«Martin Scorsese».
Perché?
«Perché Scorsese fa parte della mia adolescenza, invece Sorrentino fa parte della mia crescita intellettuale. Scorsese è il primo amore: è più sincero».
Ciao Bambino è stato accolto molto bene. Alla Festa del Cinema di Roma, ha vinto il premio per la miglior opera prima. Credi che adesso sarà più facile fare quel film che avevi in mente, proprio all’inizio della tua carriera?
«Penso di no. Quel film, oggi, sarebbe anacronistico. È un soggetto delicato; il protagonista è un uomo menomato che si innamora di una donna. Forse, ecco, rischia di diventare troppo scorretto politicamente».
Qual è la cosa più importante quando si fa cinema?
«Avere un’idea di cinema e non fare un cinema di idee».
Che cosa significa?
«È fondamentale sapere che cosa si vuole girare, e non lasciarsi guidare da spunti e suggestioni mentre si gira. E un’altra cosa che secondo me è indispensabile è trovare la propria lingua».
E come si fa?
«Accettando ogni situazione, anche gli inciampi e le derivazioni impreviste».
Qual è la tua idea di cinema?
«Rispetto a Ciao Bambino, la mia idea è stata quella di spingere alle estreme conseguenze due poli opposti: da una parte la finzione, dall’altra la realtà; da una parte la forma, dall’altra i non attori, gli ambienti e la veridicità del racconto. Spero che spingere su questi due elementi abbia dato la giusta tensione a Ciao Bambino».
In un film, è possibile trovare una verità capace di resistere al peso della finzione?
«Io penso di sì. È una cosa che ci appartiene come esseri umani. Non riusciamo a rinunciare alla nostra natura. Quando, per esempio, decido di avere mio padre nel mio film, devo essere pronto ad accettare tutto quello che mio padre è e tutto ciò che porta con sé. Si crea un cortocircuito in cui viene fuori la sua verità, la sua essenza, ed è quello che mi interessa. Intendiamoci: questa cosa non succede solo con i non attori, ma pure con quegli attori professionisti che si dimenticano di sé stessi e riescono a darsi completamente al testo».
Qual è il terreno comune tra non attori e attori professionisti?
«Uno solo: la fragilità».
Ciao Bambino verrà proiettato in anteprima il 21 gennaio al Modernissimo di Bologna, il 22 al Modernissimo di Napoli e il 23 al Cinema Troisi di Roma. Sarà in sala, regolarmente, dal 23 gennaio. Ciao Bambino è stato prodotto da Bronx Film, Anemone Film, Mosaicon Film e Minerva Pictures. Nel cast con Marco Adamo e Anastasia Kaletchuk: Luciano Pistone, Pasquale Esposito, Salvatore Pelliccia, Sergio Minucci, Luciano Gigante, Attilio Peluso, Antonio Cirillo e Rosalia Zinno. La foto di copertina è stata scattata da Glauco Canalis.