di Gianmaria Tammaro
Dall’incontro con Pupi Avati, per L’orto americano, ai prossimi progetti in Francia. E poi il rapporto con la noia, con le aspettative, l’amore per il proprio lavoro e le cose che, in questi anni, ha imparato. L’intervista.
Da quando l’abbiamo scoperto in È stata la mano di Dio, Filippo Scotti è cambiato e, soprattutto, è cresciuto. Quando gli hanno detto de L’orto americano, il film di Pupi Avati, ha avuto pochissimo tempo per decidere. Nel giro di una settimana, ha ricevuto il copione, incontrato il regista e iniziato le riprese. E se l’ha fatto, mi dice, è stato perché gli è sembrata più una questione di vita che di lavoro.
Quando gli chiedo che differenza ci sia, mi spiega che spesso chi recita tende a sottovalutare tutto il resto e a concentrarsi sull’immediato presente. Il problema, però, è che quando questo momento passa, e passa, ci ritroviamo nudi davanti alle nostre aspettative. E sono le aspettative, insiste Scotti, il nostro più grande nemico. Se recita, lo fa perché gli piace, perché sente che interpretando un ruolo e prendendo parte alla storia di un autore può essere felice.
Guarda alla Francia non come alla Terra Promessa, ma come a una possibilità concreta, in cui poter tornare in contatto con l’essenza delle cose e del mestiere. Qualche mese fa, a Rio De Janeiro, ha avuto un’illuminazione. Osservando persone diverse divertirsi nello stesso modo mentre ballavano, ha capito che anche lui può fare ed essere quello che vuole. Non ci sono limiti, non davvero. C’è solo il prossimo progetto.
Un mese fa, al cinema è uscito L’orto americano di Pupi Avati, di cui sei protagonista. Una settimana fa, invece, è stato annunciato che sarai al Festival di Cannes, nella sezione Un Certain Regard, con Le città di pianura di Francesco Sossai. In questo momento a che cosa stai lavorando?
«Devo fare un film in Francia, a giugno. Non credo di averne mai parlato con qualcuno. Non posso andare nello specifico, anche perché non so con esattezza quando gireremo».
E poi?
«E poi provini».
È una mia impressione o ti stai effettivamente spostando sempre di più verso la Francia?
«Penso di sì. Ho sempre provato una certa attrazione nei confronti della Francia. E poi, se devo essere onesto, non mi sento particolarmente stimolato dalla situazione che c’è in questo momento in Italia».
In che senso?
«Non voglio essere polemico, intendiamoci. Però a volte c’è una mancanza profonda di entusiasmo, e questa cosa si fa sentire quando partecipi a un progetto. Ne abbiamo parlato anche in altre occasioni, lo sai. Per un attore, o comunque per chi vuole raccontare una storia, è un problema. La mancanza di entusiasmo non appartiene ai creativi, è importante specificare anche questo. Appartiene all’industria, al sistema. Ci sono film che non vengono prodotti perché o troppo politici o troppo particolari. E questa è una tendenza che appartiene anche al passato, non solo all’Italia di oggi, con questo governo».
In Francia non è così?
«No, non lo è. Riconosco un entusiasmo diverso da parte di tutte le persone coinvolte, non solo da parte dei registi, degli sceneggiatori o degli altri attori».
Che cosa cerchi?
«Storie in cui calarmi completamente, dimenticando quella che è la mia vita. Lo so che è difficile. Però è per questo, alla fine, che faccio l’attore».
La vita rimane.
«Certo che rimane. Durante la promozione de L’orto americano, abbiamo fatto questo incontro all’Anteo, a Milano, e a un certo punto Pupi Avati ha detto una cosa bellissima».
Che cosa?
«Si è fermato, ha smesso di parlare del film e ha cominciato a parlare della vita. E ha detto che la vita è divisa in quattro parti. E all’interno di ognuna di queste parti, c’è una collina. E noi, ovviamente, dobbiamo superare queste colline. Anche se sentiamo la fatica della salita, ci impegniamo per andare oltre. E lo facciamo sia per la curiosità che per la voglia di vedere riconosciuto il nostro impegno. Quindi ci concentriamo così tanto su noi stessi che finiamo per perderci tutto il resto. Come ha detto Pupi, la discesa non è così interessante come la salita. È per questo motivo che guardiamo spesso al passato. Se ci pensi, è un concetto che riprende anche Paolo Sorrentino in Parthenope: l’ultima cosa che impariamo a fare, dice il personaggio di Silvio Orlando, è vedere».
Che cos’è che serve, allora?
«Dobbiamo cercare di mantenere accesa la luce della nostra mente, proprio per imparare a goderci ogni singolo istante. Dalla salita alla discesa».
Secondo te, tutti gli attori riescono ad apprezzare il singolo momento?
«Se noi sovrapponiamo la nostra quotidianità a quella del lavoro che facciamo, sbagliamo. Perché sono due cose diverse. Facendo così, rischiamo di schiantarci e di rimanere delusi. Forse quello che serve è rimanere con i piedi per terra, ben piantati nella nostra realtà. Proprio per affrontare e per vivere con lucidità la realtà del cinema: i riflettori, le interviste; l’incontro con il pubblico».
Qual è il pericolo più grande?
«Crearsi delle aspettative. Esce il film, non va bene come pensavi e tu cominci a dubitare di te stesso».
Resiste, soprattutto all’esterno, una certa difficoltà nel riconoscere la recitazione come un vero e proprio lavoro. E quindi con i suoi pro, i suoi contro, le sue difficoltà e soprattutto con la sua profonda precarietà.
«È complicato perché finisci per ritrovarti al centro di tantissime dinamiche. Pensa ai social: apri Instagram, vedi il tuo amico fotografo che sta a New York, e senti di essere rimasto indietro. Allo stesso tempo, uno spettatore vede il servizio di un giornale su di te e crede che quella sia tutta la tua vita, la tua normalità. E non è così. Qualche mese fa, per L’orto americano, mi è capitato di andare a Rio De Janeiro. E lì ho capito una cosa».
Dimmi.
«In Brasile non ritrovi dinamiche a cui sei abituato; il Brasile, per certi versi, è un altro mondo. E quando vai nel primo circolo di samba, fondato subito dopo la guerra, e vedi persone di diverse estrazioni, ricche, poveri e borghesi, ballare solo per divertirsi, realizzi quante possibilità hai a tua disposizione. Io, davanti a uno spettacolo simile, non sono riuscito a non pensare di poter fare tutto, qualunque cosa».
Che significa “poter fare tutto”?
«Sicuramente non significa successo o fama; significa realizzazione personale, intima. Se voglio fare l’attore perché sono felice, va bene».
E invece?
«Invece, spesso, ci si confonde con l’idea di dover essere visti da tutti. E non va bene. O almeno, non può essere l’unica cosa».
Per L’orto americano, sei stato scelto quasi a ridosso dell’inizio delle riprese.
«Sono stato chiamato una settimana prima. Io ero in Francia quando la mia agente mi ha mandato la sceneggiatura. L’ho letta in aereo, rientrando in Italia».
Che persona è Pupi Avati?
«Io spesso mi sono chiesto che persona sia stato. Lui, ora, mi sembra vivere una fase di amore profondo. E cerca una sintesi assoluta dei concetti. Sintesi, però, non vuol dire trascurare i dettagli; vuol dire, anzi, valorizzarli nella loro essenza. Su certe cose, Pupi mi sembra quasi magico. L’orto americano, per esempio, ha finito per mettersi insieme un po’ da solo, pezzo dopo pezzo. E secondo me, questo è un film che ha una sua anima, che riflette la natura di Pupi e la straordinarietà della sua carriera».
Che cosa ti ha fatto dire di sì?
«Ho capito che non era solo lavoro, ma una questione di vita. E ora che ci rifletto, ora che è passato un po’ di tempo, riconosco il valore de L’orto americano come banco di prova. Mi sono messo in gioco, e ho imparato tantissime cose. E poi ho conosciuto Pupi, e mi sento molto fortunato».
Pupi Avati, hai detto, ti ha dato molta libertà. In questo, secondo te, è un regista completamente diverso da Paolo Sorrentino?
«In realtà, sai, dipende. È stata la mano di Dio è arrivata in un altro momento della mia vita. Avevo vent’anni, vengo chiamato un mese e mezzo prima, e mi viene mandata questa sceneggiatura stupenda, in cui mi ritrovo molto. Paolo, però, mi ha anche dato modo di adeguare il testo a me stesso. Ed è una cosa che ti aiuta molto, perché alimenta la tua immaginazione. Forse cambiano le dinamiche, ma il rispetto per la storia, il rispetto per ciò che si vuole raccontare, è lo stesso».
Di che cosa hai paura?
«È strano, perché ho paura della stessa cosa che mi entusiasma di più».
E cioè?
«Del futuro, del tempo in divenire. Se fino a qualche anno fa non vedevo l’ora di partecipare a un nuovo progetto, oggi mi sento quasi intimidito da ciò che mi aspetta».
Qualche anno fa, mi hai detto che recitare ed essere innocenti sono due cose che si somigliano.
«Sì».
È una cosa che pensi ancora?
«Credo di sì. Essere un attore significa essere aperto, pronto a leggere una storia, a farla tua e a giocare. Proprio come succede nell’infanzia».
All’opposto cosa c’è?
«La noia. Però non mi sento di dire che la noia sia un problema».
La noia serve?
«La noia fa da motore alla creatività».
Illustrazione di copertina di Michele Peroncini.