di Gianmaria Tammaro
Con La città proibita, ora al cinema con PiperFilm, Mainetti ha voluto girare un film di genere circondandosi di veri artisti marziali. È partito da un’intuizione, influenzata da Per un pugno di dollari di Sergio Leone, e alla fine ha raccontato esattamente la storia che aveva immaginato. L’intervista.
Ogni volta che Gabriele Mainetti gira un film, parte da una premessa. E cioè da quanto sia importante raccontare una storia coinvolgente per il pubblico. Con La città proibita, prodotto da Sonia Rovai, Mario Gianani e Lorenzo Gangarossa, da Wildside, PiperFilm e Goon Films, e ora al cinema, ha preso il genere e l’ha usato per parlare di ciò che gli sta più a cuore. E lo ha fatto insieme ai due sceneggiatori, Stefano Bises e Davide Serino. Ha cambiato squadra rispetto ai suoi film precedenti, e per la sua protagonista ha cercato un’artista marziale capace di dare tutto con una sola occhiata. Proprio come il personaggio interpretato da Clint Eastwood in Per un pugno di dollari.
Mainetti crede nella centralità dell’esperienza della sala. Sa che le persone devono essere ripagate per la loro fiducia. Quando lavora a un film, sta attento a ogni cosa: ai dettagli, alle sfumature, al modo in cui i personaggi interagiscono tra di loro. Ma soprattutto sta attento a quello che c’è in mezzo: ai silenzi, per esempio; al peso che può avere, o non avere, un primo piano; al modo in cui si può caratterizzare un personaggio mostrandolo semplicemente in un momento di intimità, quando crede di essere solo. Mainetti conosce la materia del cinema profondamente. L’ha studiata prima di viverla giorno per giorno sulla propria pelle. Ragiona come un regista, certo, ma pure come un produttore e un attore.
Perché La città proibita?
«Qualcuno, all’inizio, lo chiamava così: “Kung Fu all’amatriciana”. Ma non era il titolo vero, figurati. È troppo scherzoso. Il film è pieno di dramma, e un titolo del genere non avrebbe minimamente rispecchiato questo dramma. Alla fine ho scelto il nome di uno dei due ristoranti che si vedono nel film, La città proibita. Forse l’unico problema di questo titolo è la somiglianza con il titolo del film di Zhang Yimou. Però, se me lo chiedi, è bello anche per questo».
Come sei arrivato a questa storia?
«Avevo buttato giù una serie di possibili idee su un film di kung fu ambientato a Roma. Una delle mie principali fonti di ispirazione è stata Per un pugno di dollari. Però volevo una protagonista femminile. Doveva venire dall’entroterra cinese, la parte più rurale del paese. Quindi una persona molto semplice, cresciuta a pane e arti marziali. Non c’era ancora l’idea di parlare della politica sui figli. È stata un’intuizione di Stefano Bises, che è sempre molto attento a tutte le tematiche. A me è sembrata subito perfetta».
È stato difficile trovare in Italia un produttore interessato a un film del genere?
«Ti dico la verità: in un primo momento, io non volevo dirigere questo film; volevo produrlo. È stato Mario Gianani a dirmi che dovevo anche girarlo. Ricordo che eravamo all’esterno del Teatro dell’Opera, a Roma, e che a un certo punto me l’ha proprio detto: “Perché non la fai tu quella storia sul kung fu?”».
Quando sono arrivati gli altri due sceneggiatori, Stefano Bises e Davide Serino?
«Intorno alla fine del 2022. Mi ricordo che appena ho conosciuto Stefano c’è stato un clic. Stefano ama molto i personaggi, non li giudica, se li porta a casa, ci ragiona; puoi andare a pranzo con lui, e sentirlo parlare solamente di questo. Poi è arrivato anche Davide; lui e Stefano stavano lavorando a M – Il figlio del secolo».
Come avete raggiunto un equilibrio tra i vostri punti di vista?
«Io sono sempre stato pronto a scombinare le cose. E alla fine anche Stefano e Davide mi sono venuti dietro. Abbiamo parlato, ecco che cosa abbiamo fatto. A gennaio 2023 c’era già la prima stesura, che poi è cambiata per ragioni di costi. Alla fine di settembre, La città proibita era premontato».
Un film di arti marziali ambientato a Roma, a piazza Vittorio, resta più unico che raro.
«Uno cerca sempre di fare cose che siano capaci di stupire e divertire lo spettatore. Non finirò mai di ripeterlo, so che sembro un disco rotto, ma è fondamentale offrire un’esperienza alle persone, qualcosa che valga il prezzo del biglietto».
Come hai trovato la protagonista, Yaxi Liu?
«L’ho trovata grazie a un organizzatore, Andrea Verolo. Mi disse che aveva lavorato a un film con una controfigura che, secondo lui, poteva fare al caso mio. Quando ho visto il suo reel su Instagram, ho deciso di farle un provino. Aveva uno sguardo carico e intenso. Per me era fondamentale che la protagonista fosse un’artista marziale. Una volta incontrata qui a Roma, ha subito capito quanta prossimità ci fosse tra lei e il personaggio di Mei. Si è fidata, ha condiviso il suo vissuto personale nella scena, e mi ha convinto appieno».
Perché il tuo punto di partenza è stato Per un pugno di dollari di Sergio Leone?
«Volevo raccontare la storia di un personaggio diviso tra due realtà, come il protagonista di quel film; e quindi diviso tra la dimensione di Annibale (il personaggio interpretato da Marco Giallini, ndr) e quella di Mister Wang (il personaggio interpretato da Chunyu Shanshan, ndr). Mi divertiva l’idea di questa donna misteriosa, capace di stravolgere ogni cosa con una sola occhiata, senza nemmeno parlare».
Marcello, che è il protagonista maschile, è interpretato da Enrico Borello. E c’è una somiglianza piuttosto forte tra voi due.
«Non sei il primo ad avermelo detto. Anche Enrico me l’ha fatto notare. Ed è vero: ci somigliamo».
I cattivi dei tuoi film hanno in comune la passione per la musica. Lo Zingaro di Lo chiamavano Jeeg Robot, Franz di Freaks Out e ora Annibale, che a un certo punto canta De André. Come mai?
«La musica è sempre stata una costante nei miei film, al di là di quello che fanno i singoli personaggi. È parte della mia vita. Mia nonna mi ha insegnato a muovere le mani sul pianoforte e mio zio componeva colonne sonore. Per La città proibita, ho scelto Fabio Amurri, un ragazzo di trent’anni che ha lavorato a Call My Agent. Secondo me ha fatto un lavoro pazzesco».
Hai detto di aver contattato Sabrina Ferilli quando non avevi nemmeno finito di scrivere il copione.
«È vero. Avevo appena iniziato a lavorare con Stefano e Davide. Il nome del personaggio di Sabrina, Lorena, l’aveva trovato Stefano. Parliamo di una donna che deve ricominciare, che è stata messa davanti a una sfida. E io ho subito pensato a Sabrina. Quando l’ho detto a Mario Gianani è stato contentissimo. Nel giro di mezz’ora ha trovato il suo contatto e me l’ha mandato. E io l’ho chiamata».
La città proibita non è la prima volta che dirigi Marco Giallini. Avevate lavorato insieme già nel 2008, per Basette, il tuo cortometraggio ispirato al personaggio di Lupin.
«In realtà era il 2006. Poi abbiamo lavorato a La nuova squadra. Facevo parte del cast come attore. Siamo stati insieme per quattro mesi, a Napoli. Per me Marco è strepitoso. Sono diventato un suo fan sfegatato dopo aver visto il bellissimo L’odore della notte di Claudio Caligari».
Nel cast c’è anche Luca Zingaretti.
«Un professionista incredibile, credimi. Quando è arrivato sul set, si è messo immediatamente a disposizione. Il suo primo giorno abbiamo girato una delle scene più intense e drammatiche di tutto il film. Ed è stato subito perfetto. Si è affidato, e non solo per modo di dire. Ha una generosità pazzesca».
Il suo personaggio, l’Alfredo che dà il nome a uno dei due ristoranti de La città proibita, il papà di Marcello e il marito di Lorena, colleziona cravatte. Questa cosa dove l’hai trovata?
«L’idea è di Stefano. Non ti so dire come cazzo gli sia venuta».
Questo comunque è un film sui padri e sui figli.
«Assolutamente. Una cosa che ha sempre detto Steven Spielberg, anche prima di The Fabelmans, è che si è sempre raccontato. Lui, la sua famiglia, il suo percorso. E se vuoi, lo stesso vale per me. Ma anche per Stefano e per Davide. Le storie, dopotutto, nascono da noi, da ciò che siamo. Se non partiamo dalla nostra esperienza, da dove possiamo partire? Quindi eccoci qui, a parlare di padri e figli, con Stefano che ha un’età, io un’altra e Davide un’altra cosa».
La città proibita è anche un film su un’Italia, una Roma, che non c’è più.
«Il personaggio di Annibale, se vuoi, incarna proprio questo. La voglia di resistere, di esserci, nonostante i profondi cambiamenti del mondo che lo circonda. È pieno di contraddizioni, Annibale. È un criminale, ma dice di tenere ai vecchi valori. Ha paura che gli stranieri possano prendere il controllo di Roma, ma non esita a sfruttarli per il suo tornaconto personale».
«Sei morto e non lo sai», gli dicono prima Alfredo e poi Marcello.
«Ed è così. È morto, così com’è morta la sua epoca, e non lo sa».
In questo rapporto teso tra novità e tradizione, c’è un giudizio anche sul cinema italiano, che è troppo legato al passato e che non sa rinnovarsi?
«Può darsi. Non ci ho pensato. Indubbiamente è vero che persiste una profonda difficoltà nel fare cose diverse. Per me, non ha senso voler girare oggi un film come si faceva una volta: siamo in un altro mondo, con altri mezzi e altri gusti. Con La città proibita, ho provato a costruire una dimensione che non è né Roma né l’Italia che conosciamo. Piazza Vittorio, così ricca e piena di colori, è la dimostrazione del cambiamento».
Hai fatto un film di supereroi, un fantasy storico e ora un film d’arti marziali. Che cosa ti manca?
«Forse mi manca l’horror. Ma è un genere che, nonostante le sue potenzialità, viene ancora sottovalutato dalla nostra industria. Ed è un peccato. Freaks Out, però, non mi sembra proprio un fantasy: c’è più la fantascienza».
Cito Claudio Sabelli Fioretti, con la sua domanda della torre, e ti chiedo: Spielberg o Leo Benvenuti?
«Ma non posso scegliere tra loro due, dai. Leo fa parte di me, del mio percorso. Senza Leo non avrei conosciuto Spielberg così come lo conosco oggi, ma senza Spielberg non avrei l’idea che ho di cinema. Il mio grande sogno è fare un film americano, riuscendo però a metterci dentro tutto quello che mi ha insegnato Leo».
«L’America è lontana, dall’altra parte della luna», cantava Lucio Dalla.
«Io però continuo a parlarci, con l’America. Ora mi hanno chiesto di vedere La città proibita, sono molto curiosi. Ma doveva uscire prima in sala».
L’Italia ti sta stretta?
«Dopo Lo chiamavano Jeeg Robot, mi hanno cercato tutti, pensando che potessi fare quello che nessun altro riusciva a fare. Non solo produttori, anche esordienti. L’Italia mi sta stretta nel senso che faccio fatica a muovermi sempre tra le stesse idee e le stesse cose».
Perché continuiamo a sottovalutare il pubblico?
«Il pubblico va educato. E per riuscirci è fondamentale credere nelle storie che raccontiamo. Il cinema va fatto perché deve essere visto. Io voglio che i miei film siano delle vere e proprie esperienze. In Italia si tende a ragionare per categorie. Ed è sbagliato. Di qua il cinema d’autore, di là il cinema di genere. Ma non ha senso. Bisogna sedurre lo spettatore e portarlo nel proprio mondo pieno di emozioni. È quello che ha fatto Niccolò Ammaniti con i suoi libri; ci ha insegnato l’importanza di accompagnare le persone nelle storie, soprattutto in quelle più assurde».
Ne La città proibita, Marcello prepara diverse volte l’amatriciana. Quindi ti chiedo: ci va o non ci va la cipolla?
«Tu lo sai?»
Lo sto chiedendo a te.
«Io so che non ci va, però se qualcuno ce la mette ed è buona che ce frega…».
In questi dieci anni, dopo l’uscita di Lo chiamavano Jeeg Robot, sei diventato anche papà. Credi che l’essere genitore abbia finito per influenzare la tua visione di regista?
«Sicuramente il mio sguardo è diventato più profondo, e si è fatto più attento alle sfumature dei personaggi. Il mio credo che sia un percorso naturale: cambio a seconda di ciò che mi succede, e quindi sono cambiato dopo essere diventato papà».
Per molti, tu sei uno dei registi italiani di genere per eccellenza.
«Ed è un’etichetta che mi sta stretta. Non voglio essere solo questo. Io voglio essere un regista e basta. Anzi, voglio essere anche un produttore. Ma è veramente difficile trovare nuovi talenti e nuove visioni».
Cito Arbasino e ti chiedo: in questi anni hai incontrato più giovani promesse, venerati maestri o soliti stronzi?
«Soliti stronzi, senza dubbio».
Le foto sono di Andrea Pirrello.