di Gianmaria Tammaro
L’interpretazione di Lila ne L’amica geniale, il rapporto con la recitazione e l’esperienza in teatro; l’amore per i contrasti e per le contraddizioni, la bellezza nelle storture e in ciò che spaventa. Napoli, Milano e Parigi. E poi il mare d’inverno e i lunghi viaggi in macchina. L’intervista.
A Irene Maiorino piace il mare d’inverno. Dice che è un contrasto incredibile di colori e che in quel momento, quando tutto si ritrae e si nasconde, il silenzio è assoluto. E il silenzio, dice sempre Irene, è la musica dell’attore. Per suonarla, servono gli occhi, le mani, un corpo nervoso e scattante e pronto ad ascoltare. C’è una differenza enorme tra fare e stare: è il grande segreto della recitazione, mi spiega Irene. Siamo portati a insistere per farci notare, per restituire – anche se in minima parte – ciò che intendiamo esprimere. E invece, a volte, bastano i piccoli gesti, gli accenni, scivolare nel momento e viverlo, senza però provare a imporsi.
Quando ha interpretato Lila ne L’amica geniale, Irene ha finalmente avuto l’occasione che aspettava. Ha cercato, da attrice, di trovare un equilibrio per rispettare fino in fondo il personaggio. Lila, dice, non si può spiegare, si può solo sentire. E vestendone i panni, la faccia e lo sguardo, ha imparato come farsi da parte, come ridimensionarsi, proprio per darle tutto lo spazio di cui aveva bisogno.
In questo momento è facile guardare dalla distanza l’esperienza de L’amica geniale e il personaggio di Lila?
«Non so parlare di distanza quando parlo di Lila. Non so specificare un’immagine di quantità: durante il viaggio per conoscerla siamo state molto vicine, moltissimo, ma allo stesso tempo ho conservato sempre dentro di me una distanza, come quando sei al cospetto di una divinità. E ora non saprei dirti in che luogo della mia anima si trova. Lei si nasconde e mi abita, ancora adesso. E tra romanzi, provini, riprese e messa in onda sono più di quattro anni che ci facciamo compagnia; siamo l’una dentro l’altra, come due matrioske. Ma se pure io ho avuto il privilegio di interpretarla, Lila rimane libera, è nel mondo e si agita nella vita di tantissime donne».
Perché è importante questa libertà?
«Noi facciamo un lavoro in cerca di questi personaggi, è vero; però sai che qualcosa ha funzionato solo quando è lo stesso personaggio a venire da te e finisce per spostarti, per travolgerti. È questo, alla fine, il mestiere: io lavoro con le emozioni; dentro ci metto qualunque cosa, ci metto la mia vita. E nella migliore delle ipotesi, mi muovo in una dimensione parallela, estremamente immersiva. Certi personaggi la pretendono, questa cosa».
Ed è facile accontentarli?
«Non è facile o difficile: è impegnativo. A volte mi dico che forse sono più brava nella scena che nella vita. (ride, ndr) Se dedicassi a me stessa lo stesso tempo e le stesse cure che dedico ai miei personaggi, probabilmente sarei un’altra persona. Ma mentre lo dico non so nemmeno se riuscirò mai ad avere una vita lineare».
Ti è mai capitato di recitare al di fuori del set?
«No, mai. Magari uso la respirazione per calmarmi, quello sì. Perché è una cosa che mi piace, che riflette l’idea stessa che ho di vita: non penso che le cose siano così definite e definibili. Nella vita, come nel lavoro, se c’è qualcosa che mi piace, qualcosa aderente alla terra, ai gesti, alle cose piccole, sono sempre dell’idea che possiamo spingerci più avanti, che possiamo allungare lo sguardo oltre ciò che ci sta di fronte».
E questo ti aiuta?
«Non direi. Ma se sono arrivata a fare l’attrice, è stato per il modo di guardare il mondo. Io, innanzitutto, sono una spettatrice. E questo sogno mi è stato messo negli occhi quando frequentavo l’università e andavo al cinema da sola. La mia camera, a casa dei miei genitori, era tappezzata di locandine. Erano appese al soffitto, e le guardavo prima di andare a dormire».
Oggi che cosa rimane di quel sogno?
«Oggi ci sono io, che lo interpreto e che prova a regalarlo agli altri, al pubblico. Non sto dicendo che gli attori siano degli eroi, ma credo davvero che abbiamo una responsabilità bella, creativa, di cui è necessario ricordarsi. È importante interrogarci sulle storie che raccontiamo e sui punti di vista a cui diamo spazio. E qui, per me, interviene anche l’orgoglio per aver interpretato Lila».
Le locandine dei film sono ancora lì, sul soffitto della tua vecchia stanza?
«Ci ho messo anni per cambiare quella stanza. Nel frattempo, ho traslocato in almeno dieci case e questo credo che rifletta piuttosto chiaramente quanto mi sia dedicata al lavoro. Sono stata una nomade, ho girato tanto per studiare, sono stata a Milano, a Parigi e a Napoli. E in questo c’è tutta la mia passione».
Dove inizia la passione e dove, invece, il lavoro?
«Quello che cerco di fare in scena è vivere un’esperienza. Per questo, prima, ti dicevo che non ho mai recitato nella vita. Quando ero piccola e mi mettevo in testa le calze di mia madre, per fare finta di avere i capelli più lunghi, credevo davvero alle storie che raccontavo. Nel mio percorso, c'è sempre stata una certa autenticità. Ed è questa autenticità, alla fine, che mi piace pensare mi abbia portato a Lila».
È un lusso poter essere autentici?
«Sicuramente non è una cosa che ci si può sempre permettere, soprattutto in fase di formazione. Ma ancora adesso, se devo dire la verità. Ci vuole coraggio. Nonostante quello che viene detto, ci vogliono sempre meno complicati. Un mestiere così, però, è complesso. E sono complesse le persone. E lo è anche l’investimento umano che facciamo. Non sempre viene capito. Io difendo la mia complessità, e nel caso di Lila è stata lei a ricordarmi che cosa vuol dire essere fedeli a sé stessi a qualunque costo».
Che cos’è che fa più male, l’attesa tra un ruolo e l’altro o il no per una parte sperata?
«Dipende tutto da come si fanno le cose. Spesso, soprattutto con i ruoli più importanti, le decisioni vengono prese da più persone, tra cui il regista e i produttori. E tu, come interprete, puoi fare relativamente poco».
L’esperienza cambia le cose?
«Con il tempo, puoi imparare a gestire e a diluire questi no e queste negazioni. E capisci che non dipende unicamente da te. Quando sei più giovane, non lo capisci. E lo vivi male, lo vivi come una sofferenza».
Quindi sono meglio le lunghe pause?
«Il vuoto, secondo me, è una condizione ottimale in cui trovarsi. E un po’ ti ricorda l’equilibrista che, in quanto interprete, devi essere: per me, il funambolo rappresenta bene l’incanto, la concentrazione, la dimensione onirica e l’instabilità emotiva e non solo del mestiere dell’attore».
Quando eri una liceale, hai incontrato Meryl Streep al festival di Giffoni. Che cosa ti ricordi?
«Sembrava una Madonna di luce. Mi ricordo che eravamo nella sala Truffaut, la più grande di Giffoni, e che lei aveva questi capelli biondi, quasi accecanti. Io mi sono alzata in piedi ancora prima di avere il microfono. Non so dirti come, ma balbettando sono riuscita a farle una domanda su I ponti di Madison County».
E lei che cosa ti ha detto?
«Mi ha guardata con una qualità precisa nello sguardo; era davvero interessata a quello che volevo dirle. E non è una cosa così facile da trovare, anzi. Da quel momento ho continuato a cercare quella stessa qualità dello sguardo nel mondo».
A Chiara Del Zanno, su Rolling Stone, hai detto che: «Lila non si può spiegare, si può solo sentire». Che cosa si prova interpretandola?
«Sicuramente questa è stata la mia esperienza più grande come attrice. È stato un viaggio di anni, verticale e profondissimo. Anche ora, a cose fatte, non riesco a dirti quello che ho provato interpretandola. Quello che è certo è che a un certo punto ho sentito una simbiosi: ho rivisto alcune mie fotografie scattate durante le lunghe attese tra un provino e l’altro, e in quelle foto non sono io. O almeno, lo sono solo in parte. In quelle foto si iniziava a intravedere lei, Lila, nella sua durezza e nella sua solitudine. C’è stato un contatto quasi mistico. Innanzitutto con il romanzo, e quindi con un immaginario particolare che è entrato a far parte della vita di tantissime persone. In molti, infatti, mi hanno scritto dicendomi che ho incarnato la loro idea della Lila adulta, e questo – non tradire, cioè, la fantasia dello spettatore – per me ha contato più di tutto. Soprattutto dovendo restituire un finale così doloroso».
Che cosa ha significato, per te, essere Lila?
«Guardandomi indietro oggi, ti posso dire che è stato innanzitutto un cambio di vita e di pelle. Ma durante il viaggio non puoi saperlo. Stavo vivendo una trasformazione. La cosa più dura è stata mantenere la mia identità durante un’esperienza simile. E per quanto a volte doloroso, è stato il regalo più grande. Chi ero allora e chi sono oggi? Incontri come questo lasciano un’impronta animica fortissima, e io non posso che dire grazie».
Recitare assomiglia a un atto di fede?
«Sì, ti direi di sì. Per me è importante una dimensione di raccoglimento. Quando i personaggi sono così forti, così definiti, è fondamentale trovare una dimensione più intima. Questo lavoro è incredibile perché le risposte non ti arrivano dai libri o dai metodi; i metodi ti aiutano, sono una palestra. Ma quello che devi allenare di più sei te stessa e la tua sensibilità. E quando vai in scena, c’è qualcosa di sacro che deve accadere. Per me Lila è stata una specie di tempio».
In che senso?
«Nel senso che l’ho rispettata in ogni momento e in ogni scena, e il mio atto di fede è stato dedicare il tempo giusto per assimilare e convivere con questa nuova realtà. Appena ho saputo di aver ottenuto la parte, ho sentito come se mi stessero consegnando qualcosa di estremamente prezioso. E tutte le cose, all’improvviso, hanno ritrovato il loro posto».
Prima che il personaggio di Lila ti raggiungesse, che direzioni stavi seguendo?
«Non lo so. So solo che stavo vagando un po’ in preda alle mie insicurezze. Questo lavoro può spezzarti. Lila è arrivata in un momento particolare della mia vita. Mi sono impegnata al massimo nella formazione, ma senza frequentare nessuna accademia: non sono entrata in nessun circolo».
Vivere così questo mestiere ti ha aiutata?
«Aiutata assolutamente no, anzi. Ma mi ha molto responsabilizzata. Perché il mio è stato un percorso di studio non convenzionale e quindi, in un certo senso, più faticoso. Parlo anche solo di cercare i maestri giusti con cui studiare. Poi ho lavorato, sì, ma sentivo che continuava a non arrivare il ruolo giusto. Quindi per un periodo ho avvertito un certo malessere. E questo malessere ha fatto scopa con il mio desiderio di capire che cosa fare. Quando è arrivata Lila, ho fatto un salto in avanti. E oggi sono sicuramente diversa. Ho raggiunto una consapevolezza che secondo me è inevitabile con un personaggio del genere».
Quando finisce l’infanzia e inizia l’età adulta?
«Per me c’è stato un momento preciso, che ha riguardato la mia famiglia. C’è stato un evento durante il quale ho sentito di non essere più solo una figlia, ma di essere diventata una persona adulta. Ho avvertito come uno scarto. Stavo per partire per Roma, tra Natale e Capodanno, e mi sono fermata; ho chiuso la porta e sono tornata indietro. Per il resto, però, la bambina che sono stata è sempre dentro di me. È importante conservare quella freschezza, quella genuinità e quella innocenza. Lo vedo anche con i miei nipoti. Noi andiamo troppo di fretta e tendiamo a perderci molte cose. E invece serve fermarsi, serve guardarsi attorno».
Tu chi o cosa guardi?
«Gli occhi dell’altro, in cui finisco per perdermi, e la collettività intesa come diversità. E mi piace sentirmi parte integrante di qualcosa di più grande. Da soli, secondo me, non si va da nessuna parte. E questo vale sia nella vita che nel lavoro. Penso che ci sia bisogno di molta più vicinanza e umanità, e credo che ognuno, nel proprio piccolo, possa fare la differenza».
A un certo punto, facendo l’attrice, si avverte anche un senso di responsabilità?
«Assolutamente sì, ed è una cosa che noto non solo con me, ma anche con molti miei colleghi. L’arte della recitazione e il teatro servono pure a questo, ad avvicinare le persone e a non lasciarle sole. È un discorso che riguarda il sogno, perché le persone hanno bisogno di sognare. E sognare può voler dire tantissime cose, persino riuscire a ritagliarsi un micro spazio lontano dalla monotonia e dalla routine quotidiana. Il teatro e ascoltare storie diverse dalla tua ti fanno girare la testa e stimolano il pensiero critico; ti rendono una persona migliore. Io farei leggere Shakespeare a tutti, ma senza pretese. In Shakespeare c’è l’intera umanità con le sue declinazioni e sfumature».
Hai mai detto di no a un ruolo?
«Sì, nel mio piccolo l’ho fatto. Proprio perché pensavo che non fosse un ruolo capace di rispecchiarmi o di spostare qualcosa nel pubblico».
Il teatro spaventa?
«Spaventa chi lo fa e spaventa chi lo vede. E meno male. Se è buon teatro, spaventa sempre. Anche se è divertente, perché è comunque potente. Io però noto che un certo tipo di attori di teatro si vede sempre di meno».
Di che tipo di attori stai parlando?
«L’attore che lavora con le parti basse dell’anima, quasi con la sua parte più ancestrale. Sempre più spesso, invece, capita di vedere attori concentrati maggiormente sulla tecnica. A me piacciono quegli interpreti capaci di rendere vibrante e vivo il loro lavoro attraverso un’umanità personale. Penso a Roberto Herlitzka. Lui era un gigante. Ultimamente ho visto il documentario che Sonia Bergamasco ha girato su Eleonora Duse. E quello che lei faceva era esattamente questo: in un teatro dove tutti esageravano e cercavano la sovraesposizione, lei si concentrava sui dettagli e i piccoli gesti. Ed è una cosa mi attrae molto».
Perché?
«Perché ci ricorda che non c’è bisogno di fare e di insistere e di ripetere. E questo vale sia nella vita che sul palcoscenico».
Forse è la paura di non avere abbastanza tempo che ci fa agire così.
«Non credo che la paura riguardi davvero il non avere abbastanza tempo, anche per chi si dice felice di vivere collezionando acquisti frenetici e rincorrendo la velocità – per me a volte asfissiante – di questi anni. Credo invece che la paura abbia a che fare con il non sentirsi abbastanza. Quanto sarebbe bello riuscire ad aspettare? A non avere fretta? A guardarsi di più per conoscersi e non per sfuggire? Ci sono un’infinità di meccanismi autoriferiti, ed è una cosa che, se ci pensi, riguarda pure il sesso, soprattutto tra le nuove generazioni. Non riusciamo più a stare insieme. L’incontro con l’altro ci spaventa, e invece è salvifico».
Lila ha una forza che va al di là della semplice tensione: le bastano gesti, occhiate e movimenti quasi impercettibili per esprimersi.
«Ma in Lila c’è anche la paura. E basta pochissimo perché vada tutto in frantumi. Interpretare Lila ha significato procedere per gradi. È bella, meravigliosa, ma senza mostrarsi. Come attrice, ho dovuto trovare le sue radici. E una volta che ci sono riuscita, non le ho più abbandonate. Non puoi mimarlo, un personaggio come Lila. La sensualità è una cosa che le appartiene, che fa parte di lei, che vibra in ogni gesto. E nel viaggio che ho fatto per scoprirla, sono arrivata anche in zone più nere, quasi oscure. Perché Lila rappresenta qualunque tipo di sentimenti, non solo quelli positivi. Noi, consciamente, proviamo a separarcene. Lei, invece, coincide con tutto contemporaneamente».
Credi che manchi un’educazione del pubblico nell’accettare la complessità dei personaggi e la sfida che gli attori devono affrontare per interpretarli?
«Interpretare un personaggio è sempre stupendamente faticoso».
E qual è la fatica dell’attore?
«Togliersi di mezzo, creare spazio. Dobbiamo coesistere, io e il personaggio. È un processo liquido, questo. Non netto, non immediato. E da qui derivano la fatica e la pazienza. Ma è anche quello che serve affinché tutto possa iniziare. Lo ripeto: è un processo liquido. Lila, per esempio, è una specie di magma. E più tempo ho passato interpretandola, più spazio si è ritagliata per sé stessa. Questo lavoro, secondo me, non ha delle regole assolute».
Che cosa serve per rimanere sé stessi e non cedere troppo spazio al personaggio che si interpreta?
«Serve conservare le proprie abitudini; serve, soprattutto, mantenere la propria casa. Che non è banalmente il luogo fisico: le pareti, le porte, i mobili. La mia casa sono io. Ed è importante, a un certo punto, ritornarci».
Napoli o Parigi?
«Parigi».
Perché?
«Non lo so, ti ho risposto d’istinto. Forse perché Parigi, per me, non è segnata da sentimenti ambivalenti. Parigi coincide con una parentesi precisa della mia vita. Napoli, invece, muove più corde dentro di me, e c’è sempre una tensione tra opposti, tra amore e odio. Napoli, più di Parigi, è un mondo a parte, con una sua umanità. E io non sempre riesco a convivere con questa identità così forte. Ogni volta che ci torno, o che vado da mia sorella, vedere il golfo mi cambia il respiro. Non riesco a passeggiare sul lungomare come niente fosse. Sento il mare, e sento che fa eco ai miei pensieri».
Che cos’ha di bello il mare d’inverno?
«Ti restituisce un’infinità di cose».
Non restituisce anche un velo di malinconia?
«Sì, certo. Ma io sono sempre stata irrimediabilmente romantica. Il mare d’inverno è fatto di contrasti, e a me piacciono i contrasti. Sono una delle poche cose che riescono a colpirmi a fondo, veramente. Quando ero piccola, ho vissuto molto la costiera. Ci andavo in motorino con gli amici per godermi il sole. Ora che sono più grande, ci vado da sola e mi lascio travolgere dai silenzi. E poi sai cos’altro mi piace? La risacca. Mi piace proprio quel movimento; sembra restituire le cose per ciò che sono diventate, consumate, piene di una vita che non conoscevamo. D’inverno è più facile apprezzarla. D’estate c’è troppa confusione».
Qual è la musica migliore da ascoltare durante i lunghi viaggi in macchina?
«Dipende».
Da cosa?
«Dal momento. Io lavoro tantissimo con la musica. E ne ascolto in continuazione. Nel privato, a volte preferisco lasciarmi sorprendere. Nella mia macchina ci sono da anni vecchissimi cd di Vasco Rossi, Lou Reed e di altri cantautori come Battisti e Battiato».
Qual è la musica dell’attore?
«Forse il silenzio. Perché coincide con quella dimensione che ti traghetta da un punto all’altro, da quello che sei stato a quello che sei fino a quello che, forse, sarai. Nei silenzi, può emergere ciò che conta».
Con quale strumento si suonano i silenzi?
«Con gli occhi, ma non solo. Il corpo silenzioso è un corpo in ascolto, che non è un corpo rilassato: è un corpo che vive una tensione».
Se chiudi gli occhi e ci rifletti per un secondo, qual è il primo poster che ti viene in mente tra quelli che tenevi appesi al soffitto della tua stanza?
«Mediterraneo di Gabriele Salvatores. Ho partecipato a un sacco di rassegne negli anni del DAMS. Ci andavo da sola, perché mi piaceva. E poi, durante gli anni delle università, per stare vicino a un ragazzo, abitavo a piazza Bologna, che è dall’altra parte della città rispetto a Roma Tre. E quando potevo, mi rifugiavo al Cinema delle Province. L’ho consumato, credimi. Ed è stato lì che ho recuperato tantissimi film tra cui, appunto, Mediterraneo».
Mi pare che una delle costanti del tuo percorso sia l’amore.
«È vero. Se mi guardo indietro, mi rendo conto che ci sono intere fasi della mia vita che hanno coinciso con dei grandi amori. Ho sempre avuto delle storie intense e piene di vita. Verso i 30 anni è cambiato tutto e sono cambiata anche io. Oggi ho ritrovato la mia solitudine, ma l’ho ritrovata con gioia. Quando sono sul set, metto in stand-by la mia vita e la mia passione va completamente nel lavoro. E poi, quando ho finito di girare, ci ritorno. Nella vita, secondo me, bisogna essere innamorati. L’amore muove davvero ogni cosa».
Tu adesso sei innamorata?
«Sì, ma di nessuno. Ho la pelle scoperta e sono estremamente ricettiva alla potenza della vita. Allo stesso tempo credo che l’amore sia nella cura giornaliera che prestiamo alle piccole cose, per noi stessi e per gli altri, e pure in un incontro mancato o fugace. Amo la semplicità, ma vivo anche di sentimenti potenti».
Peppe Lanzetta mi ha detto che la bellezza, come l’amore, è nelle mani. Secondo te, dov’è la bellezza?
«Io la trovo nelle storture. O, se preferisci rimanere sull’immagine delle mani, ti potrei dire che la bellezza è nella ruvidezza di certe dita, tra i calli che hanno i chitarristi. Mi piacciono i difetti, i graffi, e mi interessano le persone che hanno un legame con la loro natura più bestiale. L’essenza delle cose, come l’essenza dei personaggi, si nasconde nelle intercapedini. A me non interessa la bellezza fine a sé stessa, di chi si dice integro; a me interessa la bellezza che spaventa».
Quando hai capito di essere un’attrice?
«Il lavoro aiuta qualsiasi artista a sentirsi legittimato. Ma credo anche che sia possibile riconoscere immediatamente un attore o un’attrice che non hanno avuto ancora la loro occasione. Quello che è certo è che Lila mi ha messo alla prova sulle mie capacità e mi ha dato modo di mostrare il mio lavoro al mondo».
Di che cosa hai paura in questo momento?
«Ho paura di dire troppo. E di non sapermi raccontare a parole. Ma serve? Mi piace che a parlare per me sia il mio lavoro. Per il resto, sono molto attenta a proteggere la mia vita privata e le persone intorno a me. Ora, poi, è inverno: è tempo di rintanarsi e aspettare nuove primavere».
L’illustrazione di copertina è stata realizzata da Quasirosso.