di Gianmaria Tammaro
La sfida di interpretare Mussolini nella nuova serie di Sky, il confronto con la propria famiglia; l’importanza di riconoscere il proprio ruolo e la propria responsabilità come attore. E poi il decimo anniversario di Lo chiamavano Jeeg Robot e di Non essere cattivo, avere 40 anni, l’avventura del Cinemittu, il ritorno in teatro e l’opera prima come regista di Alissa Jung. L’intervista.
In M - Il figlio del secolo, la serie tv diretta da Joe Wright, scritta da Stefano Bises e Davide Serino e tratta dall’omonimo libro di Antonio Scurati (Bompiani), Luca Marinelli si trasforma. E non per modo di dire. Si spoglia di qualunque cosa, di qualunque forma, e diventa una persona completamente diversa. Il suo corpo si adatta alla storia che racconta, e così la sua faccia, i suoi occhi e la sua voce. Il suo Mussolini è un uomo enorme, carismatico e feroce. Vede ogni momento della sua vita pubblica e privata come uno spettacolo in cui brillare e conquistare la scena, e non gli interessa minimamente delle sorti di chi gli sta intorno. La prima cosa, per lui, è la soddisfazione personale.
Per prendere parte a M, dal 10 gennaio su Sky e NOW, Marinelli ha dovuto affidarsi completamente alla sceneggiatura di Bises e Serino e alla regia di Wright e mettere da parte qualsiasi pregiudizio. Se ha interpretato Mussolini, dice, è stato per fare i conti con la sua parte di responsabilità e per provare a restituire al pubblico la verità della tragedia del ventennio. E questo senso di responsabilità non è andato mai via, nemmeno per un istante. Ha dovuto imparare a muoversi nel suo ruolo e a osservarlo con maggiore attenzione e chiarezza. Alla fine, ha capito quanta distanza lo separa da Mussolini e quanto è oscura l’esistenza di un uomo che pensa unicamente al potere.
È una cosa che hai raccontato spesso, in quasi tutte le interviste che hai fatto. Ma credo che sia importante partire da qui. E cioè dalla prima persona con cui hai parlato di questo ruolo: tua nonna.
«Ogni volta che mi viene proposto un film, o comunque che mi viene data la possibilità di scegliere, ne parlo con la mia famiglia: con mia moglie, con i nostri figli, con i miei genitori e anche con mia nonna. Lo faccio perché mi piace condividere i miei pensieri con loro».
E in questo caso com’è andata?
«In questo caso, mi ricordo che ero a casa di mia nonna e che stavo cercando di capire se accettare oppure no. E ne ho parlato con lei. Le dissi che stavano facendo questa serie su Mussolini; lei mi ha ascoltato, perché voleva capire. E mi ha chiesto quale ruolo mi avessero proposto. E io le ho detto Mussolini».
E lei che cosa ti ha risposto, a quel punto?
«Non dimenticherò mai il suo silenzio, quei lunghissimi quattro o cinque secondi. Mi ha chiesto perché. Io lo sapevo, il perché. O almeno, ci avevo pensato e mi ero dato delle risposte. Ma quel “perché?” di mia nonna, detto in quel modo e dopo quei lunghissimi secondi, mi ha fatto perdere qualunque certezza; ha rimesso in discussione tutto. Ho provato a spiegarle che per me era un progetto giusto, perché mi avrebbe permesso di prendermi la mia parte di responsabilità affrontando la nostra storia e veicolando un messaggio antifascista. E questa è stata la prima risposta con cui mi sono – ci siamo, anzi – convinti».
E poi?
«Poi mi è stato fatto il regalo di poter far vedere la serie finita alla mia famiglia. Mi ricordo che ero nervoso. L’avevo già vista con Alissa e i nostri figli, ed eravamo molto contenti. Non sapevo che reazione aspettarmi dai miei genitori e da mia nonna. Quando alla fine della proiezione ci siamo sentiti tutti molto soddisfatti, è stato un altro momento di contentezza».
La politica dell’attore, cioè il ruolo che si può assumere al di fuori dal set interpretando un determinato personaggio, è un tema a cui ti sente particolarmente legato?
«Io penso una cosa; penso che all’inizio sia fondamentale fare tutto e avere esperienze di qualsiasi tipo. E questo perché è utile per imparare. A un certo punto, però, quando le tue scelte finiscono per avere un peso differente, è necessario conservare una certa consapevolezza del proprio ruolo e della propria posizione. Veniamo costantemente osservati, e non possiamo dimenticarcelo».
Da chi si viene osservati?
«In primis, ed è normale, da noi stessi: ci giudichiamo in continuazione. E poi dalle persone che ci guardano. Per carità, non si può vivere ogni cosa così, con questo livello di apprensione. Io però ho sempre pensato di dover trovare progetti che avessero un minimo di affinità con la persona che sono. Voglio sentirmi utile nei confronti della storia che viene raccontata e voglio esserne parte attiva».
Tu sei molto critico nei confronti del tuo lavoro? O qualche volta riesci a essere soddisfatto?
«In generale, sono estremamente critico con me stesso. Forse, delle volte, anche troppo. (ride, ndr) La prima volta che vedo il film non vedo mai il film; mi concentro sul lavoro che ho fatto. Solo successivamente, comincio a guardare il film».
Con M, invece, come ti sei sentito?
«Sono molto soddisfatto di quello che abbiamo fatto. A livello personale penso sempre che alcune cose si possano fare diversamente, ma sono contento».
Quanto è stato difficile prepararsi fisicamente per questo ruolo? Ci è voluto molto tempo?
«È stato un processo abbastanza graduale. Abbiamo deciso di usare completamente il mio corpo quasi a ridosso dell’inizio delle riprese. In questo modo, abbiamo potuto seguire anche l’evoluzione del personaggio. Bene o male, abbiamo seguito un andamento cronologico; di solito è difficile farlo. Questa volta, invece, ci siamo riusciti. E anche questo mi ha aiutato a trasformarmi gradualmente».
Credi che ci sia il rischio di fraintendimento con il pubblico? Che qualcuno, insomma, possa interpretare M come un’esaltazione di Mussolini?
«Personalmente non sento questo pericolo. Le persone che guarderanno la serie vivranno un’esperienza forte, ma non finiranno per interpretarla come un’esaltazione. All’inizio della serie, appare evidente il modo in cui Mussolini venne completamente sottovalutato. Subito dopo, arriva la fascinazione. E infine c’è la consapevolezza della prigionia della dittatura. C’è una divisione quasi netta, diciamo così, tra il prima, con Mussolini che si impegna per ottenere il potere, e il dopo, con Mussolini che ha il potere. Ma non c’è mai, nemmeno per un istante, la possibilità di fraintendere. Chi guarderà la serie per intero avrà la storia completa».
Avere un regista come Joe Wright ha aiutato, secondo te, a raccontare questa storia tenendo una certa distanza e riuscendo a dire tutto ciò che c’era da dire?
«Penso che parlare di nazioni sia un discorso sbagliato. Io credo di più nelle persone. È un dato di fatto che Joe venga da un’altra posizione geografica, ma la storia che ha voluto raccontare è ricca di pulsioni oscure e gesti criminali che hanno purtroppo a che fare con ogni latitudine e longitudine geografica e umana».
Lo scorso 22 ottobre hai compiuto 40 anni.
«Sì».
Come ci si sente ad avere 40 anni?
«Oddio... (ride, ndr) Bene. Cioè, ogni tanto me lo devo ricordare, ma a me piace vedere la vita in tre atti, proprio come uno spettacolo teatrale. Secondo me, a 40 anni si chiude il primo atto, a 80 il secondo e dagli 80 in poi comincia il terzo, che può essere più o meno lungo».
Com’è andato il primo atto?
«Benissimo. Ho fatto cose di cui sono orgoglioso e felice. Sento di essere arrivato al 22 ottobre con una soddisfazione personale e professionale profonda».
Il teatro, mi dicevi, è una cosa meravigliosa. E infatti hai scelto il teatro per fare il tuo esordio alla regia con Una relazione per un’accademia.
«Sì, ma in realtà ho scelto il teatro all’inizio del mio percorso. All’inizio-inizio, preciso. Poi ho – diciamo così – cambiato città, rimanendo nella stessa regione, e sono passato al cinema, dove ho trovato delle meraviglie simili e allo stesso tempo diverse. E per un po’, non sono tornato al teatro. Adesso, lentamente, ci sto provando. Due anni fa, ho curato la mia prima regia. E quest’anno, invece, ci sarà un’altra regia con la mia interpretazione».
È uno spettacolo originale o tratto da un testo edito?
«Tratto da un testo, sì».
Come descriveresti il tuo rapporto con il teatro?
«Il teatro ha qualcosa a cui devo riabituarmi lentamente. Ma ci penso spesso, sai? Riuscire a fare un film e uno spettacolo all’anno sarebbe stupendo. Sono entrambi una grande avventura, ma il teatro è una palestra costante, che ti allena al qui e ora».
Riccardo Scamarcio mi ha detto che il teatro, dentro di sé, conserva una dose di pericolo. Sei d’accordo?
«C’è un certo rischio, sì. Il teatro è fortemente adrenalinico, come se fosse uno sport estremo. E non hai nessuna protezione o mediazione. Anche nel cinema, non è detto che tu riesca; puoi fare trenta ciak, ma puoi comunque non riuscire a portare in scena quel qualcosa che dovresti riuscire a portare. Non so dirti cosa sia più frustrante. (ride, ndr) Il teatro non ha nessuna rete di salvataggio, e se va male va male in quel momento».
Nel 2024, hai deciso di aprire un cinema con alcuni amici, U Cinemittu.
«Ho voluto dare veramente spazio ai sogni. Perché io amo quel paese, Longone Sabino; lo amo profondamente. E non potevo rimanere indifferente davanti alla preoccupazione di vederlo sparire negli anni. Con il Cinemittu, volevamo smuovere un po’ la situazione e dimostrare che comunque in un posto che può sembrare remoto si possono fare delle cose bellissime: si può aprire una piccola sala in cui proiettare film, si può riaprire un’osteria dove mangiare insieme; ci sono dei sentieri sulle montagne vicine, che si possono seguire ed esplorare. L’obiettivo, ti ripeto, è quello di dare vita a un sogno di comunità. E di stare così insieme. Io ho fatto quello che mi piace fare: il cinema, certo, e il teatro, perché in quella sala si può fare anche teatro».
E come sta andando?
«Mi sembra che dei segnali li stiamo dando. C’è gente che va, che partecipa. E ci sono anche persone che hanno preso casa lì o che pensano di passarci qualche settimana. E poi vedo che nella zona altre realtà si stanno organizzando e stanno facendo quello che abbiamo fatto noi».
Sempre nel 2024, hai lavorato con Alissa Jung, tua moglie, che ti ha diretto nel suo esordio alla regia, Paternal Leave. E con tuo padre, Eugenio, che ha doppiato Masego in Mufasa. Quanto è importante per te la famiglia?
«Per me è importante l’amore che c’è dentro. La famiglia è un posto, un luogo, dove ci si sente protetti, dove si può essere sé stessi e dove si sta bene. L’esperienza che ho fatto con Alissa è stata incredibile, e lo stesso vale per quella che ho fatto con mio padre. Nel doppiaggio non ci si incontra, no, però sapere di poter fare questa cosa insieme a lui è stato molto bello. Non me lo sarei mai aspettato».
Parallelamente alla famiglia, ci sono i fan. Quelli che ti seguono da sempre.
«In Germania si dice “wunder” per indicare una meraviglia. Sapere che ci sono delle persone che apprezzano il mio lavoro mi riempie davvero di gioia, perché non è una cosa scontata: non è detto che ci sia qualcuno pronto a dirti quello che prova quando vede un film in cui hai recitato».
E con le critiche, invece, che rapporto hai?
«Secondo me, è proprio l’essere umano che non riesce a ignorarle. Puoi ricevere cento complimenti e una sola critica, e tu finirai sempre per concentrarti su quell’unica critica. Personalmente credo che sia importante ascoltare tutti – c'è sempre la possibilità di imparare, di andare altrove e di cambiare, quando sono osservazioni costruttive».
Sapere che ci sono delle persone che ti guardano, che ti apprezzano, si aggiunge a quella responsabilità di cui parlavamo prima?
«Assolutamente sì. Ed è questa consapevolezza che a volte ti aiuta nelle scelte».
Quando hai capito di essere un attore?
«Non credo che ci sia stato un momento in cui l’ho pensato. E che cos’è, poi, un attore? A me è sempre piaciuto intrattenere, anche quando ero bambino. E io, credimi, sono sempre stato estremamente timido. Ma quando capivo di essere riuscito a dare qualcosa alle persone che mi stavano intorno ero felicissimo. Quindi, forse, mi sono sempre sentito un po’ attore. Qualcuno che voleva ricreare, creare anzi, e fare comunità attraverso quell’esperienza. Poi, a un certo punto, ho scoperto che si poteva studiare; e dopo lo studio, ho trovato il lavoro. E quindi oggi sono qui, attore. Non ti so dire quando è successo, ripeto, e non ti so dire nemmeno se sono autorizzato a dirlo… Ma sì, credo di essere un attore».
Quest’anno è il decimo anniversario sia di Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti sia di Non essere cattivo di Claudio Caligari. Quante cose sono cambiate, in questo tempo?
«Tante, ti direi. Tantissime. E sono cambiato anche io, ovviamente. Quando riguardo quei film, sono veramente felice di averne fatto parte. Sia per le loro storie sia, poi, per le persone che ho incontrato. Mi hanno cambiato la vita. E oggi li guardo anche con un po’ di nostalgia. Tra quel periodo e oggi, ci sono state altre cose meravigliose. Ma quell’anno è stato molto particolare».
C’è una differenza, come attore, tra tv e cinema? O è una distinzione oramai superata? A parte M, tu hai lavorato anche in Trust e Principe Libero.
«Non credo che abbia ancora senso tenere le due cose così separate. Certo, sono diverse. E certo, usano due linguaggi totalmente differenti. Ma i progetti che hai citato sono stupendi. Pensa che ho fatto una serie anche qui in Germania, che si chiama Una fortuna pericolosa. La televisione, oramai, è ovunque. Non è più il tubo catodico e quella fissità fisica. Oggi c’è lo streaming, e vengono fatte delle cose stupende. E ad alcune di queste cose, ho avuto anche la fortuna di partecipare».
Ultimamente che cosa hai visto?
«Non è una serie, ma ho visto il film di Charlie Kaufman, Sto pensando di finirla qui. Molto, molto bello».
Che cosa hai capito su te stesso, interpretando Mussolini?
«Che quello è l’essere umano che non voglio essere. Che non voglio essere guidato da quelle pulsioni, e che non voglio essere in quel luogo di emozioni e sensazioni. E ho capito che sono contento di essere così diverso e di essere diventato la persona che sono oggi».
Secondo te, l’Italia è riuscita a fare i conti con il proprio passato e, quindi, con il fascismo?
«Secondo me no, ed è una cosa – credo – abbastanza palese. Non abbiamo fatto i conti con quel periodo storico. E penso che sia davvero importante che questo periodo, questa parte del nostro passato, venga affrontato come si deve anche a scuola. È fondamentale capire quello che è successo. Se ci avviciniamo a quei vent’anni, non possiamo avere dei fraintendimenti. Non sono successe cose buone, in quel periodo. Per nulla. C’è stato il trionfo dell’impero dell’odio, della violenza e della morte. Ognuno deve fare la sua parte. Anche io, quando ho letto il libro di Antonio Scurati, mi sono ritrovato davanti alla mia ignoranza. E questo credo che sia importante: fare, cioè, i conti con la propria ignoranza. Solo a quel punto, come società, possiamo metterci insieme e capire dove andare».
Che cosa hai capito, invece, di Mussolini?
«Capito è una parola grossa. Posso dire che recitando ho sentito che dentro di lui c’era un vuoto gigantesco, che lui ha provato a colmare con questa sete di potere e successo, con questa voglia costante di apparire e dominare. E che davanti a qualunque decisione ha sempre scelto la via criminale, disprezzando ciò che aveva intorno a sé e mettendo al primo posto sé stesso».
Visto quanto hai vissuto, fatto e superato per interpretare Mussolini, saresti disposto a prendere parte a una seconda stagione?
«Il gruppo che ha lavorato a questa serie è un grande gruppo di artisti. E io so di non essere mai solo. Se ci sarà modo, farò volentieri la mia parte».
Qual è, alla fine, la cosa più importante?
«Così, d’istinto, ti risponderei l’amore. Che va poi diviso in tanti piccoli sottoinsiemi, per le tante cose che si fanno e che si vivono ogni giorno. C’è l’amore per la famiglia, per il lavoro, per gli altri. Per me sono molto importanti anche la gentilezza e la cura che si ha nei confronti del prossimo, ed è importante l’ascolto. Credo che la capacità più importante dell’essere umano sia proprio la capacità di amare».
Perché?
«Perché ci unisce, ci tieni vicini; ci fa riscoprire nell’altro qualcuno che un po’ ci somiglia, che ha provato qualcosa che anche noi, a un certo punto, abbiamo provato. Nell’amore, ritroviamo sia noi stessi che il mondo che ci sta intorno».
L’illustrazione di copertina è stata realizzata da Manuele Fior. Le foto di scena e del backstage sono state scattate da Andrea Pirrello. M - Il figlio del secolo è una serie originale Sky, prodotta da Sky Studios e da Lorenzo Mieli per The Apartment (società del gruppo Fremantle), in co-produzione con Pathé, in associazione con Small Forward Productions e in collaborazione con Fremantle e CINECITTÀ S.p.A. Nel cast con Luca Marinelli: Francesco Russo, Barbara Chichiarelli, Benedetta Cimatti, Paolo Pierobon, Lorenzo Zurzolo e Gaetano Bruno. Regia di Joe Wright e sceneggiatura di Stefano Bises e Davide Serino. Tratta dall’omonimo libro di Antonio Scurati (Bompiani).