di Gianmaria Tammaro
Il rapporto con il teatro e con gli spettacoli dal vivo, la voce come estensione della propria identità e il corpo come strumento per esprimersi; i meccanismi dell’ispirazione, la libertà della musica e del disegno e l’importanza di prendere sempre appunti per ritrovare sé stessi. L’intervista.
Marianne Mirage, nome d’arte di Giovanna Gardelli, prende continuamente appunti. Dice che così, scrivendo e disegnando, riesce a tenere una traccia di sé stessa. Con Teatro, il suo nuovo album, si è ritrovata. Mentre ci lavorava non è cambiata, ma si è rimessa al centro con le sue priorità, i suoi desideri e, soprattutto, con la sua idea di musica. L’ispirazione nasce da tante cose diverse: nasce dai sogni, da ciò che vediamo, dalle storie delle persone che ci circondano; nasce da un’intuizione e nasce da noi stessi, da ciò che proviamo.
Per fare musica, insiste Mirage, non serve soffrire; serve, però, sapersi liberare della sofferenza. In Teatro vengono fuori la sua forza, la sua energia e la potenza delle parole. È un disco che ha il sapore dei ritorni a casa, e Mirage lo ripete più volte: ora è felice; ora sa che cosa vuole; ora, quando va in scena e sale su un palco, si riconosce nei movimenti del suo corpo e nel suono della sua voce.
Che cosa si prova quando esce finalmente un nuovo disco?
«Io ora sono felice. Ma tanto, tanto felice».
Non c’è spazio anche per la nostalgia?
«Quella si prova prima, mentre si lavora al disco e si sta per chiudere. Poi, quando esce il primo singolo, arriva la paura».
E in quel momento, quando hai paura, a che cosa pensi?
«A tornare indietro, a non uscire più».
Alla fine, però, Teatro è uscito.
«Sì, è uscito. E io ora provo a godermi tutta la felicità che questo disco ha portato con sé. È tanta, credimi. E per me si tratta di un bellissimo ritorno».
Prima di dedicarti completamente alla musica, hai studiato recitazione.
«Io nasco con il teatro. Ed è una soddisfazione poter esprimere finalmente anche questo aspetto di me. Spesso dimentichiamo quanto sia importante il teatro per la musica. E poi io vedo il teatro come un tempio: un luogo dove vai perché ne hai bisogno, perché cerchi qualcosa a cui rivolgerti e affidarti. Il teatro ti trasforma; ti dà una chiave per leggere il mondo. E ti fa sentire meno sola. Il teatro è un modo per conoscersi».
Però è anche un luogo dove si è particolarmente esposti. Il teatro non fa un po’ paura a chi si esibisce?
«Il teatro è sempre difficile. Quando vai in scena, non sai mai chi hai davanti. E ogni volta è diverso. Il teatro è un’incognita. Secondo me, la cosa bella del teatro è che chiede una partecipazione maggiore da parte degli spettatori; è un po’ come un invito a riprendere in mano la cultura».
Lo spazio è un elemento fondamentale nell’esecuzione di un brano?
«Non credo. Quello che conta è ciò che vive all’interno di chi ascolta, se c’è o meno voglia di emozionarsi e di lasciarsi andare alla canzone che si sta ascoltando. Molto spesso, ci si concentra su altro, sulla superficie delle cose, e ci si dimentica di tutto il resto».
Dove nasce l’ispirazione?
«Sicuramente nei sogni. Io ho un rapporto bellissimo con il mio inconscio, e a volte mi capita di fare dei sogni che non hanno alcun senso – sogni dove incontro animali particolari, dove faccio cose di cui non riesco a spiegarmi il motivo. E il giorno dopo me lo chiedo: perché ho sognato questa cosa; che senso ha. Il mio inconscio mi fa fare sempre dei bei viaggi, e infatti Chiudi gli occhi è nata così: avevo sognato tutto; le parole, gli arrangiamenti, la musica. Non succede mai. In generale, credo che l’ispirazione nasca dalle storie delle persone. Cielo, per esempio, è nata quando ho immaginata questa suora che perde la fede. Vicino a casa mia, c’è un convento. E ogni tanto spio chi ci va, sto attenta a quello che fa. Mi piace osservare la vita delle persone. E poi, ovviamente, ci sono io».
Per fare arte, per fare musica, bisogna soffrire?
«Più che altro, bisogna liberarsi delle sofferenze. In quello che ho vissuto c’è tanta sofferenza. Però credo che sia importante provare ad andare avanti. Non si può pensare che senza la sofferenza sia impossibile scrivere. Un altro mio disco, Vite private, era tristissimo».
E ti ha aiutato scriverlo?
«Quella tristezza non è servita a niente. Se la tristezza non si converte in altro, se non si trasforma in vitalità, non ha alcun senso. Mi viene in mente una delle canzoni più tristi di Adele, Someone like you. In quella canzone lei dice “never mind”, ovvero “non importa”. Ecco, è fondamentale ribellarsi».
Che mondo è il mondo della musica?
«All’inizio della mia carriera, cantavo solo canzoni in inglese. Poi, quando ho conosciuto Caterina Caselli, sono stata catapultata in una dimensione completamente differente. Ho smesso di cantare in inglese e sono stata investita di una responsabilità notevole. Ho sempre vissuto le logiche di mercato come un grosso limite alla creatività, e oggi questo aspetto è particolarmente evidente. Siamo circondati da canzoni che si assomigliano e che non rischiano. Per questo motivo, a un certo punto, ho detto basta. E per tre anni ho insegnato yoga».
E che cosa hai imparato in quel periodo?
«Ho ritrovato me stessa e ho ritrovato la mia libertà. Teatro è pubblicato da Peermusic, che è un’etichetta indipendente. Quando l’ho fatto sentire per la prima volta alle persone che ci lavorano, l’hanno subito voluto. E l’hanno voluto così com’era, senza chiedermi di cambiare niente. E io ho amato il fatto di non essere costretta a trasformarmi e di poter essere me stessa fino in fondo. Quindi si può fare musica: basta mettere le ambizioni prima dei soldi».
Esiste una politica degli autori, secondo te?
«È un mondo pieno di contraddizioni, questo. Per farlo andare avanti, è fondamentale seguire determinate dinamiche. Io non ho mai fatto featuring nella mia carriera; ne ho fatto qualcuno per dischi non miei. Ma Teatro esce così, senza strategie, senza featuring, nel modo in cui l’ho immaginato. Gli autori vanno valorizzati per loro qualità, non per il numero di dischi che vendono. O almeno, ecco, non solo per il numero di dischi che vendono. Mi ha fatto sorridere quello che ha detto Marracash».
Perché?
«Si è scagliato contro i cantanti che si affidano sempre ai soliti autori e poi lui ha fatto la stessa cosa. Non ci meravigliamo se alla fine la musica è così».
Disegni ancora?
«Disegno sempre e tanto. Nei miei taccuini, non prendo appunti solo per le mie canzoni, ma disegno anche quello che mi viene in mente. E l’ispirazione, se vuoi, nasce pure così. Io tengo un diario di tutto quello che faccio: di quello che provo, che sbaglio, di cosa mi piacerebbe fare. Mio padre mi ha sempre detto che il tempo passa in fretta e che tendiamo a dimenticarci di ogni cosa. Ecco, io voglio provare a tenere una traccia. Non ho una memoria fotografica; la mia memoria sono i miei taccuini, quello che scrivo e disegno».
Che cosa hanno in comune la musica e il disegno?
«Sicuramente la libertà. Sia la musica che il disegno si possono esprimere senza dover seguire per forza una regole. Noi siamo una moltitudine di cose, mai una cosa sola. Mi ricordo che una volta, senza pensarci, ho disegnato una bocca aperta con una ragnatela. E da quello spunto ho scritto un verso che fa: “ragnatele in bocca, baci che lui non mi dà”. Quindi sì, le immagini delle mie canzoni arrivano anche dai disegni».
È facile mantenere una distanza con sé stessi quando si rileggono le cose che si sono scritte?
«L’obiettivo, in teoria, è quello. Ti faccio un esempio: ho vissuto una storia d’amore drammatica, e in quel periodo ho scritto tanto».
Che cosa?
«Tutto quello che provavo e che mi succedeva; tutto quello che mi passava per la testa, gli aneddoti che mi interessavano, che mi piacevano».
E rileggendoti come ti sei sentita?
«Quasi non mi sono riconosciuta. Ero un’altra persona. Se non ricordiamo la strada che abbiamo già percorso, difficilmente riusciremo ad apprezzare ciò che siamo diventati».
Quanto senti di essere cambiata lavorando a questo disco?
«Più che cambiata, penso di essermi ritrovata. Sono di nuovo centrata».
Patti Smith o Ornella Vanoni?
«Édith Piaf».
Perché?
«Perché è l’unione delle due: ha l’irriverenza di Patti Smith e la potenza di Ornella Vanoni».
Quanto è importante la voce?
«Io mi ricordo una cosa stupenda che disse Lucio Battisti per rispondere alle persone che lo criticavano quando stonava; disse: a me non interessa se stono o meno; a me interessa la canzone, tutto è al suo servizio. Ed è vero: non esiste la voce senza canzoni».
Tu che rapporto hai con la tua voce?
«Quando ho mal di gola, mi ricordo quanto sia importante e quanto mi rappresenti. È una mia estensione, la voce. È ciò che sono, è il mio carattere, la mia sensualità, la mia essenza».
Nella musica chi è che ha l’ultima parola, la pancia o la testa?
«La pancia. La testa non dovrebbe proprio esserci».
Non c’è una differenza tra forma e sostanza?
«Ma per me tutto quello che viene dalla mia pancia ha una struttura. Lo stomaco, come si dice, è il nostro secondo cervello. Quando metto nero su bianco una cosa, significa che è già stata digerita e filtrata. La testa mi fa pensare agli altri, al loro parere, alla validità di quello che ho scritto rispetto all’esterno. E se segui troppo la testa, finisci per scendere a compromessi».
Che legame c’è tra corpo e musica, secondo te?
«Io ho sempre visto il corpo come un elemento distaccato. Nasco dal punk, da Kurt Cobain, da Janis Joplin, con la musica psichedelica degli anni Settanta e Ottanta; e lì il corpo non serviva. È stato lo yoga a togliermi questa idea. E ho capito che ogni muscolo ha una sua memoria e che il modo in cui ci muoviamo dice chi siamo. Oggi so che quando sono sul palco sono me stessa».
A chi appartengono le canzoni?
«Se pensiamo al mercato della musica, appartengono alle grosse etichette. Ed è bello quando invece appartengono a chi le ha scritte».
Perché?
«Perché in questo modo rimane una traccia».
E se ci allontaniamo dal mercato, a chi appartengono le canzoni?
«A tutti. Non a me, non alle etichette. A chi le ascolta. Prima di far uscire Chiudi gli occhi, ho sofferto molto. Perché volevo raccontarla a tutti quelli che la ascoltavano. Poi, però, ho imparato a lasciarla andare. E per fortuna: ora mi stanno scrivendo tante persone dicendomi che mi hanno ritrovata».
Che differenza c’è tra artigiani e artisti?
«Gli artigiani sanno come si fa una cosa, e sono meticolosi, attenti, seguono un processo. Gli artisti sono più istintivi».
Tu sei più artigiana o artista?
«Sono decisamente più istintiva. Tutte le mie canzoni sono nate così, dall’istinto. Te lo dicevo anche prima».
Quanto è difficile scegliere e riconoscere le parole giuste?
«È molto importante riflettere su quello che vogliamo esprimere prima di, appunto, esprimerlo. Le parole devono corrispondere a un determinato significato; devono restituirlo a chi le ascolta. Le parole sono un aiuto. Se non so di che cosa ho bisogno, sarà quasi impossibile trovare le parole giuste».
Che cos’è casa?
«È quel posto in cui sono in pace con il mondo».
Mentre lavoravi a Teatro, eri in pace con il mondo?
«Sì, per la prima volta sì».
E adesso che Teatro è uscito, c’è la paura per quello che diranno gli altri?
«Assolutamente no. Quello che ci accomuna come esseri umani è la paura di morire, perché non sappiamo che cosa ci aspetta. E per me vivere significa imparare ad accettare l’esistenza della fine. Questo disco qui mi ha insegnato come si fa a morire, come si fa a lasciare andare, rimanendo però felici».
Come si riconosce, così, la felicità?
«La felicità mi ricorda molto la meditazione. E soprattutto, mi ricorda una descrizione che ho trovato in un libro bellissimo che ho letto: Se il mondo ti crolla addosso di Pema Chödrön. Nella meditazione, siamo esattamente tra due pensieri: uno che è appena andato via e un altro che non è ancora arrivato. Ed è così anche quando siamo felici: viviamo a fondo una vuotezza che riempie. È uno stato di abbandono, di sospensione, in cui il mondo si regge ancora».
Tu che cosa cerchi in questo momento?
«Più che la felicità, cerco la serenità».
L’illustrazione di copertina è stata realizzata da Arianna Rea. Le foto sono di Leonardo Vecci Innocenti e Michele Rossetti. Teatro è disponibile sulle principali piattaforme streaming. È possibile acquistare il vinile a questo link. A marzo, partirà il Teatro Live Tour: il 23 marzo a Roma; il 29 marzo a Cesena, il 30 marzo a Bologna, il 3 aprile a Torino, il 4 aprile a Biella, il 9 aprile a Milano e il 25 aprile a Barcellona.