di Gianmaria Tammaro
Gli anni del teatro, il rapporto febbrile con la scrittura. E poi Napoli, i tour in giro per l’Italia e l’arrivo al cinema. L’incontro con Paolo Sorrentino, il ruolo in Parthenope e i nuovi libri. Tra poesia, potere e meraviglia. L’intervista.
Dice Peppe Lanzetta di aver iniziato a scrivere per sopravvivere. Aveva il posto fisso, in banca, e ha deciso di lasciarlo per ritrovare sé stesso e la propria voce. Quando ha recitato nei primi film, l’ha fatto per cambiare. Oggi sente di poter essere qualunque cosa. Aver lavorato con Paolo Sorrentino a Parthenope, dove interpreta il personaggio di Tesorone, è stato un modo per chiudere un cerchio. La sua Napoli, racconta, si è trasformata, ma allo stesso tempo è riuscita a rimanere anche la stessa: feroce, bellissima, sensuale. Divisa tra miracoli, e quindi poesia, e potere.
Se fosse stato un musicista, Lanzetta sarebbe stato un jazzista. Non avrebbe suonato nessuno strumento; avrebbe cantato come un muezzin arabo. Chi fa il suo stesso mestiere, ammette, ha la responsabilità di avvicinare il pubblico alla bellezza e di fargliela riscoprire. Per cogliere la verità delle cose, serve essere realisti ed essere pronti ad affrontare l’ipocrisia del mondo. Che sta male, dice Lanzetta, perché è stato invaso dalle brutture.
Partiamo dall’inizio. Peppe o Giuseppe?
«Giuseppe, ma essendo nato a Napoli è diventato ed è rimasto Peppe».
Prima di esordire come scrittore, hai esordito come attore. Perché a un certo punto hai sentito il bisogno di mettere per iscritto i tuoi pensieri?
«Per quattro anni ho fatto l’impiegato in banca, e passavo tutte le mie giornate nell’ufficio cassette di sicurezza. E visto che c’era una macchina da scrivere, ho cominciato a usarla».
E che cosa scrivevi?
«Poesie. Avevo 20 anni. È stato in quel momento che iniziato a capire che si poteva comunicare con la parola. Le cose che avevo scritto sono rimaste nel cassetto per molto tempo. Ma quell’esperienza mi ha aiutato, perché mi ha permesso di creare un rapporto con la scrittura. E così, quando ho cominciato a fare sul serio, sapevo già da dove partire. E soprattutto sapevo di avere qualcosa da dire».
Lasciare il posto in banca deve essere stato difficile.
«Io l’ho lasciato per continuare a vivere. Non potevo andare avanti in quel modo. Se fossi rimasto lì, sarei finito con un ago nel braccio. Il disagio che provavo era fortissimo».
Il primo incontro con il teatro, invece, quando c’è stato?
«In un certo senso, durante gli anni della scuola. Ho fatto ragioneria con Pino Daniele, quando non era ancora Pino Daniele. E quando ho imparato a conoscerlo, ho intuito che aveva un talento enorme. Gli ho dato una mano come ho potuto. E in quegli anni c’è stata la possibilità di provare a cambiare, per essere fondamentalmente più liberi».
«Io ho sempre amato la libertà», dice il Tony Pisapia de L’uomo in più. Per te quanto è importante la libertà?
«Moltissimo. Fa parte di me, del mio bisogno di vita. Io ho rifiutato delle commedie e delle tournée teatrali perché avevano il sapore dell’impiego. Quello che ho fatto negli anni ‘80, come monologhista, è stato fantastico – e parlo per me, per quello che ho provato e sono potuto essere. Poi mi sono spostato al cinema per cambiare. E nel frattempo ho continuato a scrivere».
Alla fine degli anni ‘80 dedichi Lenny a Lenny Bruce, prima di qualsiasi moda e di qualsiasi spinta italiana alla stand-up comedy. Come lo avevi scoperto?
«Vidi il film con Dustin Hoffman, quello diretto da Bob Fosse, in un cinema d’essai. E ne rimasi folgorato. Mi dissi: io da grande voglio fare quello che fa Lenny Bruce».
Com’è cambiata Napoli in questi anni?
«Napoli è una città creativa; sa rinascere dalle sue stesse ceneri. Tutto il fermento artistico che c’è oggi è estremamente vitale. Ed è questo fermento a fare la differenza. Prima c’erano la scuola genovese e quella romana e poi è arrivata Napoli. Adesso che c’è tutto questo turismo è una città che in parte ha smarrito la sua malinconia ed è diventata nell’immaginario collettivo una grande pizza. Una pizza che comincia a Caserta e finisce a Salerno. E così si perde anche la dannazione di Napoli, che facendo soffrire i suoi figli li ha costretti a un urlo quasi munchiano».
La malinconia ha controindicazioni?
«Assolutamente sì. Il popolo di Napoli è un po’ come il popolo brasiliano. Loro la chiamano saudade, noi la chiamiamo pucundria. Ed è esattamente il contrario dell’allegria e della voglia di vivere. In questo scatto, c’è tutto. C’è quello che ha permesso a Pino Daniele di fare Je so’ pazz e Lazzari felici».
A proposito di malinconia, hai detto che il tuo ultimo libro, Quentin Malinconia appunto, è un omaggio al Tony Pagoda di Paolo Sorrentino. Però è vera anche un’altra cosa, e cioè che il linguaggio del Sorrentino scrittore è un po’ figlio di Un Messico napoletano.
«E di questo io e Paolo ne abbiamo parlato, e Paolo me l’ha anche riconosciuto. Forse mi ha chiamato per Parthenope proprio per questo; avrà pensato che era il tempo di omaggiarmi. (ride, ndr)»
Quentin Malinconia fa il pianista in un pianobar. Ti chiedo: che cos’hanno in comune la scrittura e la musica?
«Secondo me, li unisce un rapporto quasi simbiotico. Tutto quello che ho fatto, in qualche modo, è sempre partito dalla musica. Se, per esempio, stavo scrivendo un racconto e stavo ascoltando Cyndi Lauper, io dovevo comunicare che Time after time, in quel momento, non veniva per caso ed era un aiuto da cogliere. Ho sempre avuto bisogno di far entrare la musica e la musicalità nelle cose che ho scritto».
Nella mitologia napoletana, una delle figure più importanti è quella di Maradona. E tu ne hai anche scritto. Che cosa lega Maradona alla città?
«Maradona ha incarnato l’essenza stessa della napoletanità. Lui era un argentino napoletano e un napoletano argentino. Solo a Napoli, avrebbe potuto trovare il riposo della sua inquietudine. E solo a Napoli avrebbe potuto trovare tanto affetto. La gente in lui ha visto qualcosa di pazzesco, e lo ha amato incondizionatamente».
Prima di Parthenope, tu e Sorrentino avete lavorato insieme per L’uomo in più.
«Esatto».
Secondo te perché ci è voluto così tanto tempo, più di vent’anni, per ritrovarvi?
«Questo non te lo so dire, dovresti chiederlo a Paolo. Posso azzardare un’ipotesi».
Dimmi.
«Conoscendo Paolo, credo che lui abbia aspettato il momento giusto. Probabilmente, quando ha scritto il personaggio di Tesorone, aveva già in mente la mia faccia e la mia fisicità. Ma non ne sono sicuro. La prima volta che ci siamo visti mi ha abbracciato e mi ha baciato; mi ha detto: sei proprio tu».
Indirettamente, o addirittura direttamente, hai contribuito al successo di Toni Servillo. Sorrentino racconta che per convincerlo a leggere il copione de L’uomo in più l’ha minacciato dicendo che avrebbe dato a te la parte.
«Ma sai, io credo che ognuno di noi debba rispondere a dinamiche diverse, anche astrali. In quel periodo io non ero l’uomo in più. Avevo scritto qualcosa che, a modo suo, ci si avvicinava. Ma non ero io. E Toni è stato bravissimo in quel ruolo e in tutte le cose che ha fatto con Paolo. Poi non dimentichiamoci che io, per molto tempo, ho vissuto di scrittura; avevo bisogno, per farlo, di vivere la città ogni giorno, di nutrirmi di Napoli e delle sue contraddizioni. Non potevo spostarmi a Roma o a Brera. Anche questa, se vuoi, è una dannazione. E oggi non ti nascondo che mi meraviglio quando scopro che i giovani, ragazzi di appena vent’anni, conoscono quello che ho fatto trent’anni fa».
E che cosa significa per te?
«Significa non diventare vecchio; significa poter conservare una modernità. E se questa cosa arriva, io sono molto contento».
È stato difficile per te seguire la strada che avevi scelto?
«Ognuno di noi ascolta il suo corpo e ascolta quelli che sono i suoi istinti. Se ho fatto quello che ho fatto, se ho scritto, è perché ce l’avevo dentro. Perché ero così. Io sono nato con il cabaret».
Facciamo un salto all’indietro: siamo a Milano, negli anni Ottanta.
«Feci un provino con il proprietario del Derby, il locale. E lui alla fine mi disse una cosa che non dimenticherò mai».
Cosa?
«“Tu sei Eduardo, non sei Peppino. Perché vuoi fare Peppino?” Me lo disse più volte».
E tu come hai reagito?
«Lì per lì non ti nascondo che ci rimasi male. Poi, però, capii. Il mio dolore, ciò che mi portavo dentro, era innegabile. E la risata non bastava per camuffarlo e per nasconderlo. Dovevo esprimerlo, doveva venire fuori. E alla fine è venuto fuori, anche se con qualche sofferenza. Relativa, però».
In che senso “relativa”?
«Secondo me ci dobbiamo sempre ricordare che il lavoro che facciamo è un grande privilegio. Veniamo riconosciuti e apprezzati. E siamo contenti. Non siamo i minatori peruviani o gli abitanti della Striscia di Gaza. Il mondo in cui viviamo è pieno di dolore e non possiamo fare finta di niente».
Oggi si sente una mancanza nel racconto di Napoli?
«Direi di sì. Quando Roberto Saviano pubblicò Gomorra, mi mandò una copia autografata. La dedica diceva, e te la cito quasi a memoria: a Peppe che per primo ha messo viso e mani all’inferno. In realtà, Figli di un Bronx minore nasceva da un’urgenza. Volevo dare voce a chi una voce non ce l’aveva. Non potevo minimamente immaginare l’accoglienza che avrebbe ricevuto. Diceva Troisi: loro sono in tanti a scrivere e io sono solo a leggere. Non potevo recuperare ogni scritto, ogni saggio e ogni articolo. Ho provato a buttare fuori quello che avevo dentro. Se fossi stato un musicista, sarebbe stato un pezzo blues, un assolo di Chet Baker o di Charlie Parker. Ecco, io mi vedo come un jazzista che sale sul palco e che si lascia andare. Ho girato sei o sette volte l’Italia, l’ho vista quasi tutta grazie all’intuizione di Alessandro Bergonzoni che una sera, a Bologna, cambiò per sempre la mia vita. La mia condizione di napoletanità è stata superata da questo bisogno di allargare l’orizzonte».
È facile riconoscere questo bisogno?
«Chi nasce a Napoli non pensa di poter diventare nazionale o internazionale. Chi nasce a Napoli è portato ad accontentarsi di quello che può fare. Se riesce a campare è già contento. Napoli è una città storicamente dominata e conquistata, e tendiamo sempre a ringraziare il conquistatore di turno. A Milano è diverso; a Milano si respira un’aria fatta di affari e di obiettivi».
A Napoli, invece, cosa c’è?
«I napoletani hanno il talento ma non il senso dell’impresa. Siamo sempre dovuti partire per cercare qualcos’altro. E sta qui il nostro bisogno: il bisogno di trovare conforto lontano dalla città».
Che jazz avresti suonato se fossi stato un musicista?
«La musicalità mi appartiene per il suo ritmo. Non so suonare nemmeno uno strumento. Probabilmente sarebbe stato simile alla preghiera di un muezzin arabo. Io mi vedo come un cantore più che come un musicista; mi vedo come un cantore che unisce Lenny Bruce ai neomelodici, gli Almamegretta ai Massive Attack, Tony Astarita a Mario Merola. La mia passione per la musica è sempre stata profonda. Quando ero ragazzo, volevo conoscere a memoria tutti i nomi dei cantanti degli anni Sessanta e le loro storie. E questo ritorna sia in Quentin Malinconia sia nel mio nuovo libro, Era l’America, in cui vengono raccolti undici racconti post-metropolitani, tre dei quali dedicati al mio – al nostro – sogno generazionale dell’America».
Il tuo Tesorone è a metà di tante cose ed è vicino sia alla meraviglia del miracolo che alla concretezza viscerale del potere. Anche Napoli è così?
«Sì, e lo è sempre stata. Il sistema del potere ha approfittato dell’ignoranza delle persone per sedurle. La personificazione dei santi, a Napoli, ha più a che fare con il paganesimo che con la cristianità. Napoli è piena di altari votivi; ogni quartiere ha il suo santo e il suo patrono. E in questa divisione, c’è stato pure spazio per la criminalità, che ha fatto quasi a gara su chi festeggiare e omaggiare. Un po’, se vuoi, come succede a Palermo con Santa Rosalia e a Catania con Sant’Agata. I santi sono dei feticci, e possono essere anche dei calciatori o dei cestisti o dei moderni Sinner. C’è una deificazione che si muove insieme al desiderio di rendere i santi persone. Per i napoletani San Gennaro non è un santo; lo chiamano faccia gialluta, faccia gialla, e lo vedono come uno di loro».
Tesorone è anche un poeta. E ti chiedo: poesia è potere?
«No, non lo so. La poesia vive nella sofferenza, fa male; il potere ha paura della sofferenza. Poi bisogna capire. La poesia può essere tutto e il contrario di tutto, e il potere teme la poesia. Per questo ha ucciso Pasolini».
A 16 anni, di straforo, hai visto Ultimo tango a Parigi. Ti è piaciuto?
«Moltissimo. Lo devo rivedere ciclicamente, ne ho quasi bisogno. Ero riuscito a entrare in questa proiezione perché sembravo più grande rispetto all’età che avevo».
Poi Bernardo Bertolucci ti ha anche telefonato. Che cosa ti ha detto?
«È successo dieci anni fa, dopo l’uscita al cinema di Take Five. Lo aveva visto ed era rimasto colpito dalla mia interpretazione. Mi aveva chiamato per dirmelo. Le cose esistono, accadono, sono nell’aria. A volte basta aspettare, così come io ho aspettato la telefonata di Bertolucci senza nemmeno saperlo».
Posillipo o Vomero?
«Nessuno dei due».
Sorrentino o Tornatore?
«Sorrentino per tutta la vita. Ammiro e apprezzo Tornatore, ma Sorrentino è unico. Sorrentino è la sintesi, è la poesia di cui parlavi prima. I suoi film sono dei quadri. E la sua poesia, così, diventa pittorica. Con Parthenope ha raggiunto un livello altissimo e capisco pure perché non l’hanno scelto per gli Oscar».
Perché?
«Perché era troppo di tutto. A volte disturba. Scuote. Come diceva Cormac McCarthy: la vita non è per tutti. Parafrasandolo, io ho detto che Sorrentino non è per tutti».
Che cosa serve per poter scrivere e raccontare la verità?
«C’è bisogno di essere realisti. C’è bisogno di semplicità. E allo stesso tempo c’è bisogno di affrontare l’ipocrisia per ciò che è. Come disse un famoso medico, l’Occidente intero è depresso. E il mondo fa schifo, perché ci hanno inondato di brutture e ci hanno disabituato alla bellezza. Quando ho visto il Duomo di Monreale, ho pianto. Perché intorno al Duomo di Monreale c’erano cantieri e l’orrore suburbano. L’artista, allora, non può fare altro che sensibilizzare alla bellezza».
E dove si nasconde la bellezza?
«Nelle mani, come l’amore. L’amore è nelle mani».
La foto di copertina è di Vincenzo Schioppa/NSS Factory. Questa intervista è stata originariamente pubblicata su The Vision. Parthenope di Paolo Sorrentino arriverà su Netflix il 6 febbraio.