di Gianmaria Tammaro
Dopo Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out, Mainetti torna in sala con una nuova storia di genere che si presta perfettamente per una riflessione più ampia sul suo cinema e sulla nostra industria. L’approfondimento.
La città proibita di Gabriele Mainetti, al cinema dal 13 marzo, è un film necessario. E lo è per diverse ragioni. Al di là di qualunque retorica, è un film necessario perché offre finalmente un’alternativa a quel pubblico – più o meno grande, più o meno consolidato – che cerca storie di genere. È necessario perché, in un mercato in cui vanno bene le commedie romantiche (e Follemente di Paolo Genovese è una chiara dimostrazione), serve alternare. E serve, soprattutto, una pluralità di voci e di punti di vista. La città proibita è necessario anche per un altro motivo, e forse si tratta del motivo più banale: è un buon film. E noi – il pubblico, l’industria, la critica che cerca di dare una direzione e una forma a ciò che sta succedendo nel nostro mercato – abbiamo un gran bisogno di buoni film.
Su Gabriele Mainetti, spesso, si usano sempre gli stessi argomenti: è un regista giovane (è del ’76), è specializzato in genere (ha fatto tre film, tutti di genere, è vero, ma non basta per poterlo considerare solo in questo modo) e fonda la sua poetica – parola orrenda, lo so – sulla contaminazione. C’è, però, un fraintendimento. Nel caso di Mainetti, la contaminazione non è un processo fortemente ricercato e voluto. La contaminazione di Mainetti deriva dalla sua preparazione, dai film che ha visto (e che, chiaramente, ha fatto). Deriva dagli studi che ha seguito, dalla parentesi americana, dall’incontro con Leo Benvenuti, dal suo amore per Spielberg e Leone. Deriva, insomma, dalla sua storia. Mainetti non contamina i generi perché vuole – indubbiamente c’è una parte considerevole della sua coscienza che gli suggerisce cosa fare, per carità. Mainetti contamina i generi, intrecciandoli e unendoli, innanzitutto perché non accetta etichette e divisioni, perché vede il cinema come una materia ricca e variegata, che non ha bisogno né di semplificazioni né di scorciatoie.
Mainetti ha cominciato come attore, e recitando ha capito come fare per parlare agli altri interpreti e dirigerli al meglio. Poi ci sono stati i cortometraggi, tutti o quasi figli di qualcos’altro: fumetti, passioni, ricordi d’infanzia. E infine è arrivato Lo chiamavano Jeeg Robot, uscito nelle sale italiane nel 2016 (in realtà, fu presentato per la prima volta nel 2015, alla Festa del Cinema di Roma e a Lucca Comics and Games). Mainetti, e l’ho già detto altrove, è un unicum nel nostro mercato. E in quanto unicum, va considerato per tutto ciò che è. Quindi per i suoi slanci creativi, con cui cita, rimanda e amalgama. E per il suo approccio estremamente ponderato e chirurgico alla scrittura.
Se per Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out (2021) Nicola Guaglianone, sceneggiatore, ha giocato un ruolo chiave nella scrittura, per La città proibita Mainetti si è fatto affiancare da Stefano Bises e Davide Serino, già autori di una delle sceneggiature più belle di quest’anno, quella della serie Sky M – Il figlio del secolo. Mainetti ha bisogno di cambiare e di ribadire la propria visione. E anche per questo La città proibita è un film necessario. Ci stiamo fermando alla superficie, alla storia che racconta: una ragazza cinese arriva a Roma per salvare, e poi vendicare, sua sorella; parallelamente, un ragazzo, cuoco nel ristorante di famiglia, perde suo padre e deve imparare a fare i conti con la sua nuova quotidianità, affiancato da sua madre e da un criminale di quartiere. Sembra, e lo è, una storia lineare. In realtà, Mainetti, Bises e Serino hanno costruito – volenti o nolenti – una griglia narrativa meticolosa, ben scandita, che ruota intorno a tre sequenze più lunghe d’azione (e l’azione non è solo quella dei combattimenti, attenzione) e con un intreccio più personale e intimo che unisce i due protagonisti.
In mezzo c’è Roma, e pure questo è un argomento che torna di frequente con Mainetti. Perché nei suoi film c’è sempre Roma e ci sono i romani, la loro lingua e la loro ironia. Ma la verità è che Mainetti, come i più bravi, sa che il modo migliore per fare un film è partire da ciò che si conosce – e che si conosce bene. Non ha senso spostarsi altrove, in un’altra città, se manca una consapevolezza profonda degli spazi e delle abitudini. Nei film di Mainetti, Roma è una cosa viva, è un personaggio, non uno sfondo, e si trasforma insieme ai vari protagonisti. Nel caso de La città proibita, è grande quanto un mondo intero. Ed è in grado di abbracciare culture e sensibilità diverse (la prima sequenza, sotto questo punto di vista, è particolarmente significativa). La città proibita si raccoglie intorno a due pilastri interpretativi precisi: da una parte Yaxi Liu, che interpreta Mei, la protagonista femminile, e dall’altra Enrico Borello, che interpreta Marcello, il protagonista maschile. Questi due attori – Yaxi, tra parentesi, è alla sua prima esperienza dopo aver lavorato come stunt – si compensano a vicenda. Fisicamente e mentalmente.
Borello è più alto, sottile, spesso goffo (in alcune situazioni, però, è abile e determinato, come nelle scene in cui deve cucinare). Parla tanto e cerca continuamente di spiegarsi. Yaxi, invece, è silenziosa, tesa, compatta. Si esprime con i gesti e le occhiate. Il suo personaggio, Mei, è chiaramente figlio del pistolero interpretato da Clint Eastwood in Per un pugno di dollari di Sergio Leone. Eppure, allo stesso tempo, è differente. Con il suo arrivo a Roma, spezza qualunque equilibrio. Proprio come fa Joe/Cint Eastwood con i Baxter e i Rojo in Per un pugno di dollari. Ma è pure diversa perché ha un’agenda personale, segreta, che mette più volte in crisi la sua lucidità e la sua pace mentale. Il Marcello di Borello, invece, è un giovane uomo che deve fare i conti con chi vuole essere – se il cuoco del ristorante di famiglia o se, al contrario, una persona indipendente. Ha un rapporto stretto, viscerale, con sua madre. Subisce e contemporaneamente prova a reagire. Si ritrova coinvolto, anche se solo in parte, in una storia più grande di lui. E tutto quello che può fare, a un certo punto, è osservare – diventa uno spettatore, proprio come noi.
Parallelamente, accanto a questi due pilastri interpretativi, c’è un insieme di personaggi secondari (per numero di scene più che per intensità recitativa) fantastico. La madre di Marcello, Lorena, è interpretata da Sabrina Ferilli, che non esagera, non cerca a tutti i costi di imporsi sulla scena, ma ne segue il flusso, aggiungendo piccole cose, piccole sfumature, e alzando il tono unicamente quando serve. L’Annibale di Marco Giallini, così carismatico e confuso, riprende l’idea di villain di Mainetti: mai totalmente negativo, ma nemmeno totalmente buono, con un suo tornaconto e un suo obiettivo; innamorato, appassionato di musica, nostalgico. Lo spettro, insomma, di una Roma che non tornerà più (e il fatto che si chiami Annibale è particolarmente interessante). Poi c’è l’Alfredo di Luca Zingaretti, che compare pochissimo e che però sa velocemente ritagliarsi il suo spazio. È potente, vibrante, umano. Fa uno dei discorsi più belli di tutto il film, ed è davvero bravo. Chunyu Shanshan, che interpreta Mr. Wang, è un padre. Ha il suo giro d’affari, è pericoloso e temuto; è il rivale di Mei. Ma è anche un genitore che ha perso qualunque contatto con suo figlio, che lo segue da lontano, e che rimpiange – se del tutto o in parte non è chiaro – alcune delle scelte che ha preso. È l’anima di un nuovo mondo: non perfetto, non ammirevole, non giusto. Ma ossessionato dal potere e dal controllo. Roma, dice a un certo punto, ha finito per conquistarci, noi che siamo arrivati qui per impadronircene.
La città proibita, insomma, segue due direzioni nello stesso istante: una lineare, in avanti; e l’altra quasi circolare e concentrica, che porta alla ripetizione – mai asfissiante, mai inutile – di determinate dinamiche (come, per esempio, gli scontri). L’azione, che in un film di arti marziali è fondamentale, non si ferma però ai gesti. Entra nelle espressioni, nei dialoghi, si afferma prepotentemente nei silenzi. Ritorna, in altre parole, all’essenza stessa del cinema: movimento dopo movimento, gesto dopo gesto. E se volete trovare delle citazioni e dei riferimenti ai film di genere, ne troverete tantissimi. Ma di nuovo: la contaminazione di Mainetti non è qualcosa che viene studiata a tavolino, un ricettario da seguire fedelmente. Se succede, e succede, è naturale e istintiva; striscia, diciamo così, sotto la pelle e tra i pensieri.
La fotografia di Paolo Carnera si adegua, e in questo non c’è niente di male, alla composizione delle inquadrature – quando c’è tanto movimento, anche la luce, a modo suo, deve muoversi. Passa da toni più freddi a toni più chiari, dal buio più intenso alle sfumature dei neon, dalle luci artificiali a quella del giorno. E si amalgama, proprio come ogni altra cosa, con il racconto. Fabio Amurri, che firma le musica, ha saputo dare una seconda anima a La città proibita, e non è una cosa da poco – soprattutto se prendiamo in considerazioni quelle che sono le dimensioni del film. Ma il lavoro di ricostruzione della scenografia, degli arredamenti e dei costumi, rispettivamente curati da Andrea Castorina, Domenico Dicillo, Biagio Wasiak e Susanna Mastroianni, è ciò che rende La città proibita più spessa, viva e reale. Bellissima da vedere e invitante da studiare con lo sguardo. E anche per questo motivo il film di Mainetti è un film necessario. Come Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out, non dimentica mai l’importanza centrale dei dettagli, degli oggetti che riempiono la scena, della credibilità degli spazi e non solo delle interpretazioni. In un film, nasce un mondo. Che può essere più o meno simile al nostro. Ma in quanto mondo ha una sua dimensione e una sua consistenza. Ed è fondamentale tenerlo a mente.
La città proibita è un film necessario perché ci ricorda che il cinema, inteso come linguaggio e come industria, è una cosa enorme, variegata, piena di spunti e di idee. E serve coraggio – molto, molto coraggio – per farlo. Non era scontato un terzo film come questo dopo Freaks Out. Il merito è dei produttori: Mario Gianani, Lorenzo Gangarossa e Sonia Rovai. E di Wildside, società di Fremantle, PiperFilm, che è anche distributore, e Goon Films. Non ha senso l’argomento minaccioso che fa leva sulla responsabilità del pubblico, chiamato ad andare in sala per permettere a film come questo – film, lo ripeto, necessari – di essere fatti. È più utile, forse, parlare di possibilità. La città proibita non è, e non può essere, l’unico cinema per l’Italia. Proprio come non lo possono essere le commedie o i film d’autore. Al contrario, deve essere una delle sue tante ramificazioni.
Agli spettatori va data l’opportunità di scegliere – di decidere, cioè, cosa andare a vedere. Ed è fondamentale che l’industria, come il pubblico, sia pronta tanto ad allargarsi quanto a restringersi. La città proibita è un film di arti marziali scritto magnificamente, diretto con intelligenza e abilità e forte di interpretazioni vibranti e intense (che non significa, però, melense o morbose). È un film che merita di essere visto sul grande schermo per la profondità e la ricchezza dell’esperienza che promette di regalare. In più, funge da monito. Ci ricorda che anche noi possiamo fare questo tipo di cinema, e che anche noi abbiamo autori unici con un loro linguaggio cinematografico. Dobbiamo imparare a riconoscerli e a sostenerli. Perché è nel loro successo che risiede parte del nostro futuro di spettatori.
Le fotografie sono di Andrea Pirrello.