di Gianmaria Tammaro
Il documentario di Francesco Lettieri, scritto con Federico Vacalebre e distribuito dal 31 marzo al 2 aprile da Lucky Red, è un ritratto ricco e approfondito dell’uomo oltre l’artista. Dall’infanzia al successo e dal successo fino alla morte, Pino è un racconto sincero e attento, che mette sempre al centro la musica. L’approfondimento.
Per tutto il tempo, al centro di Pino, il documentario su Pino Daniele diretto da Francesco Lettieri e scritto con Federico Vacalebre, al cinema dal 31 marzo al 2 aprile con Lucky Red, c’è la musica. Non è solamente un ritratto intimo del cantautore napoletano – proprio all’inizio, vediamo immagini di repertorio girate dallo stesso Daniele. È qualcosa di più. È il tentativo, e secondo me è estremamente riuscito, di catturare l’anima di un certo modo di intendere e di fare arte. Ed è il tentativo di fotografare una Napoli che non esiste più, figlia di un’altra epoca, piena di altre necessità, dove anche solo pensare di poter suonare era un atto rivoluzionario.
Per un’ora e trenta, non vediamo altro che Pino Daniele, la sua infanzia, la sua storia, il modo in cui, a fatica, è riuscito a crescere e ad abbracciare il suo sogno; e poi sentiamo la voce di chi l’ha conosciuto, amato, di chi ha suonato con lui e ha condiviso gioie e dolori. Ogni tanto, interviene in prima persona Vacalebre, sulle tracce di brani inediti di Daniele. Ma questo è soprattutto un documentario sul talento musicale: dove nasce, di che cosa ha bisogno; quanto sia importante soffrire, provare sulla propria pelle il dolore, e quanto – allo stesso tempo – sia importante avere successo e vedere i propri sogni realizzarsi.
Pino Daniele ha trovato la musica per caso, nella chitarra che gli prestò un compagno di classe. Da allora, non si è mai fermato. Fino alla fine ha scritto, composto, provato. Pensava di potersi ritirare, ma non ne fu in grado. Ha fatto parte della nuova scena napoletana e ha affiancato rapidamente giganti come James Senese. Ha visto qualcosa, ha avuto quel tipo di intuizione che solo i geni hanno, e ha provato a restituire agli altri, con le parole e con i suoni, ciò che provava. La sua musica è stata un punto di rottura. A chi gli chiedeva di cantare in italiano, lui rispondeva di no. Ha fatto sue tonalità e generi di tutto il mondo, è stato un bluesman, un jazzista, un rocker. E non ha mai cercato di imitare nessuno. È sempre stato sé stesso.
Il racconto di Pino procede linearmente, per tappe. Inizia con il figlio, Alessandro, e si chiude con le note di una sua canzone, rimasta per anni inedita. Intanto, sullo sfondo, scorre Napoli. E Lettieri è tanto bravo da andare oltre l’estetica da cartolina: gira dei mini-film, dei videoclip, per alcune delle canzoni di Daniele, e lo fa non solo per farle risaltare ancora di più, ma soprattutto per creare una struttura narrativa sensata, dove immagini e parole vanno insieme, a braccetto, e dove la poetica di Daniele può assumere una consistenza precisa. Ci sono gli anni Ottanta, c’è piazza del Plebiscito strapiena di gente, e c’è l’incontro con La Smorfia e Massimo Troisi. E poi c’è il racconto della malattia, delle difficoltà dei primi tempi e della determinazione che riportò Daniele a esibirsi su un palcoscenico. C’è l’artista, certo, ed è normale. Ma c’è pure l’uomo: quest’uomo grosso, sorridente, con la voce leggera, sempre pronto a prendere in giro l’altro, non serioso ma serio, perché affamato più che appassionato di musica. E il suo concerto con Eric Clapton, uno dei miti della sua infanzia, rappresentò il coronamento di un percorso iniziato nell’amore profondo per la musica.
C’è il fratello che parla della sofferenza di Pino, di quando viveva lontano da casa, con le “zie” (che zie non erano, ma solo buone samaritane); ci sono i racconti degli amici di infanzia, di quella volta – per esempio – che presero a chiamarlo Pinotto dopo aver visto la pubblicità del Chinotto; e poi ci sono i figli. C’è una famiglia nella famiglia. Un cerchio nel cerchio. Jovanotti che racconta quando lui, Daniele e Ramazzotti collaborarono, e che ricorda quando allo Stadio San Paolo, oggi Maradona, Daniele venne a sapere della morte di Troisi. Fiorello che dice che il suo duetto con Daniele è stato uno dei punti più alti della sua carriera, e Vasco Rossi che si riconosce nel suo essere schivo.
È difficile raccontare un artista come Pino Daniele senza scadere nella retorica o nei cliché. Ed è difficile costruire un film tenendo insieme tutto: le gioie, i dolori, la sofferenza e le polemiche. Eppure Lettieri, con l’aiuto di Vacalebre, ci riesce. Costruisce un film che non è un tiepido omaggio, ma una diapositiva della complessità dell’uomo oltre l’artista, della persona sotto la maschera. Il montaggio di Mauro Rodella funziona come un filo rosso: attraversa Pino dal primo all’ultimo minuto, e raccoglie, stringe e assembla. Dai materiali d’archivio ai videoclip di Lettieri, e dalle riprese della Napoli di oggi a quelle della Napoli di ieri, più buia e allo stesso tempo, quasi paradossalmente, più luminosa. Se c’è questa continuità visiva, il merito è anche di Salvatore Landi, che firma la fotografia e che trova un equilibrio tra esposizioni e ombre. Ricopre le immagini con una pellicola di colori ed effetti, che servono tanto a rievocare un periodo storico quanto a mantenere una costanza nel racconto.
È impossibile, alla fine di Pino, non sentirsi travolti e coinvolti, partecipi e in qualche modo addirittura protagonisti della storia – della musica, anzi – di Daniele. Ognuno ha i suoi ricordi, e ognuno ha il suo rapporto con le sue canzoni. La loro bellezza, la loro essenza meravigliosa, resta un punto fermo nello spazio e nel tempo. E il documentario di Lettieri, prodotto da Groenlandia, Lucky Red e Tartare, in collaborazione con Netflix e TimVision, ritrae proprio questo: l’universalità di Pino Daniele, la sua voce, l’eterna contemporaneità di una musica che solo apparentemente sembra appartenere al passato e che invece risuona e vive ancora oggi.