di Gianmaria Tammaro
Al cinema dal 17 aprile con Lucky Red, è tratto dall’omonimo libro di William S. Burroughs (Adelphi). Il protagonista, Lee, è interpretato da uno straordinario Daniel Craig. Siamo a Città del Messico, negli anni Cinquanta. Forse Queer non è il film della vita di Luca Guadagnino, ma è sicuramente il più personale, quello che ha inseguito per più tempo. L’approfondimento.
Queer di Luca Guadagnino, al cinema dal 17 aprile con Lucky Red, è un film libero. Libero nel senso di spassionato, totale e nervoso; libero perché anticonformista, esplosivo e dolente. Non parla di sesso. O almeno, non è solo di sesso che parla. Parla di tutto ciò che c’è intorno: delle persone, dei corpi, di quello che vuol dire avere un’identità e saperla riconoscere. Parla di tutti, presi come insieme, come gruppo, e parla di ognuno di noi nella nostra soggettività. Queer è ambientato a Città del Messico, ma non è Città del Messico quella che vediamo: sono scenografie ricostruite a Cinecittà, spesse, colorate, polverose. E proprio per questo, in un cortocircuito narrativo, sembrano più vere, vissute e credibili.
Guadagnino ha adattato il libro di William S. Burroughs (Adelphi), e ha chiesto a Justin Kuritzkes (Challengers) di scrivere la sceneggiatura. Poi ha trovato la sua strada, ed è una strada piena di immagini, di sagome spesse, di inquadrature che si aprono ad altre inquadrature, come una serie di vasi comunicanti senza fine. Al centro di tutto, c’è il Lee di Daniel Craig: fascinoso, carismatico, sempre incerto. Quando sorride, la faccia si riempie di rughe, la fronte si tira e le labbra si fanno scomposte: una più su, dritta, l’altra più giù, leggermente ricurva. Eppure mantiene, chissà come, un equilibrio. Lee ama, e ama profondamente. Cerca altri uomini con cui stare, e la sua, per la prima parte del film, sembra quasi una caccia. Ma non è tanto il sesso, a interessarlo: l’abbiamo detto, Queer non è un film su questo. È quello che c’è prima – il corteggiamento, la conoscenza, gli sguardi che si rincorrono tra la folla, i bicchieri che si riempiono e si svuotano, le sigarette che si accorciano a ogni respiro – che desidera. E poi quello che c’è dopo: l’intimità, la complicità; il poter condividere con l’altro sé stessi – se solo un piccolo frammento o l’interezza di ciò che siamo è un dettaglio.
Lee vive mille vite, e in ognuna di queste vite prova a fare un passo in avanti verso il suo centro, verso la sua natura. Chi sono, che vuol dire queer, a chi appartengo e chi appartiene a me. E in questa scoperta costante, Lee si rivela fragile, disarmato, quasi un bambino. Per questo motivo, Queer è anche un film delicato, di crescita, che sa bilanciare le pulsioni fisiche ai dubbi della psiche, che si muove a ritmo di musica e che poi, la musica, finisce per comporsela da solo a furia di stacchi, movimenti di macchina e di primi piani. Ha una sua estetica, Queer. Ed è un’estetica libera, con una sua grammatica e un suo linguaggio, che non vuole essere simile a nient’altro se non, appunto, a sé stessa.
Il cinema di Guadagnino è un cinema fisico, fatto di corpi, di tensione, di sudore. Gli schiaffi fanno male, come fanno male le urla. I personaggi si consumano nel corso delle storie. Cambiano. Le loro facce sono facce piegate dal dolore e da ciò che provano, e ciò che vivono non si limita ad attraversarli: li trasforma, li smussa, li rende più o meno sinceri, più o meno attenti. Lee compie un viaggio. Un viaggio che poi finisce quasi nello stesso punto in cui è cominciato. Un viaggio che gira intorno all’amore, che ci gioca, che prova a elevarlo in qualche modo. Ma che deve imparare a convivere con i limiti della materia e, soprattutto, della mente. Lee ha un’ossessione, e questa sua ossessione è ciò che lo guida. E rischia di ucciderlo, a un certo punto.
Tutti i film, ha detto Luca Guadagnino a Mattia Carzaniga, sono film della vita. Queer, però, è qualcosa di più: è un film personale, che Guadagnino ha inseguito per decine e decine di anni. E su cui ha potuto riflettere. Probabilmente non è lo stesso che aveva immaginato la prima volta; o forse, è esattamente il film che Guadagnino ha sempre avuto in mente. Anche questo fa parte del mistero. Queer, nella sua libertà, è fumoso, insinuante, ricco di proiezioni: i personaggi sbiadiscono, diventano fantasmi e si perdono nei loro pensieri finché qualcun altro non li richiama. È denso, Queer. Denso perché, dal primo all’ultimo minuto, ha qualcosa da offrire allo spettatore, da mettere in risalto. Denso perché non sembra accontentarsi: va sempre avanti, sempre oltre.
È denso, Queer, perché ha un suo ritmo: a tratti scandito dalla regia, a tratti dall’interpretazione di Craig; a tratti dal montaggio di Marco Costa. E questo perché tutto, alla fine, è scrittura. Non solo il copione. È scrittura la decisione di costruire in un certo modo un’inquadratura, ed è scrittura il gesto che Craig decide di fare per togliersi gli occhiali o per rimetterseli. E dunque, se vogliamo, Queer è pure un film in divenire, liquido, dinamico. Che coincide, se possibile, con la fuggevolezza di ciò che siamo – anzi, di ciò che crediamo di essere.
Queer è il suo protagonista, Lee. Ed è il suo regista, Guadagnino. Siamo negli anni Cinquanta, nei discorsi tornano i russi, gli agenti sul campo, la guerra. Ma c’è una frivolezza – educata, mai stucchevole – nella forma che prendono i dialoghi che rende tutto incredibilmente invitante e seducente. E in queste contraddizioni, delineato e inafferrabile, antico e moderno, semplice e ricercato, Queer ribadisce la sua unicità.