di Gianmaria Tammaro
Dagli anni del liceo a quelli del Centro Sperimentale di Cinematografia, dagli esordi come attore alla consapevolezza dell’esperienza. E poi Modi - Tre giorni sulle ali della follia, il nuovo film di Johnny Depp al cinema dal 21 novembre con Be Water Film, in cui interpreta Amedeo Modigliani. L’intervista.
Nei momenti più difficili, quando passa la voglia di avere a che fare con gli altri e con i meccanismi più oleati e perciò più odiosi del cinema, Riccardo Scamarcio ascolta Carmelo Bene. Dice che lo placa, che lo tranquillizza. «Lo vedo e mi ricordo che va tutto bene». Per fare l’attore, Scamarcio ha rischiato, provato e studiato. Non esattamente in quest’ordine. Ha lasciato il Centro Sperimentale di Cinematografia prima del diploma e ha cominciato subito a lavorare. È diventato velocemente un divo per le masse, con Tre metri sopra il cielo, e poi si è infilato in altri ruoli e in altri spazi per ritrovare un contatto più diretto e immediato con la materia del cinema e della recitazione.
In Modi – Tre giorni sulle ali della follia, il nuovo film di Johnny Depp distribuito da Be Water Film con Maestro Distribution e Medusa Film dal 21 novembre, è stato in grado di darsi e di affidarsi: due cose che spesso rischiano di lavorare l’una contro l’altra, ma non in questo caso. Il Modigliani di Scamarcio è un uomo ruvido e affascinante, divertente e divertito, che prende il giro l’altro, non riconosce il potere costituito e che è pronto a scatenarsi. Come una molla schiacciata e compressa. Ma questo Modigliani sa essere pure passionale e delicato. Ama follemente l’arte, meno la vita. Ed è consapevole di sé stesso, del suo talento e di ciò che può fare. Anche davanti alla promessa di successo, non scende a compromessi. Il talento, dice Scamarcio, viene fuori da un certo equilibrio. E la differenza tra un attore e un non attore la fa una risposta, una sola.
Uno dei momenti più belli e intensi del film è il confronto tra Modigliani e il Maurice Gangnat interpretato da Al Pacino. A un certo punto, Gangnat dice: «Il sacrificio non porta con sé la garanzia della grandezza». È d’accordo?
Ma certo. Non è che se uno si sacrifica, se soffre, è automaticamente un artista affermato. Il sacrificio non garantisce assolutamente nulla.
Nulla?
Nulla. Ci sono tanti artisti che non si sacrificano e che hanno un successo enorme. E ci sono artisti che soffrono per i loro continui sacrifici, che vivono di stenti, che si improvvisano ogni giorno e che ciò nonostante non riescono ad affermarsi. Il sacrificio non è garanzia di nulla, lo ripeto. È uno dei possibili aspetti del percorso di un artista. Ed è una cosa personale, propria, che non dipende da nessun altro.
Nella stessa scena che citavo prima, Modigliani, cioè lei, risponde a Gangnat: «Voi siete meramente esistito, io ho vissuto».
Sì.
Che differenza c’è tra “esistere” e “vivere”?
Vivere presuppone il fatto che tu accetti tutto quello che viene e che la vita ti suggerisce e ti mette davanti, nel bene e nel male. Vivere significa imparare ad assecondare il vento e non combatterlo per forza. Vivere significa esporsi all’imprevedibile, avendone comunque paura.
Esistere, invece?
Esistere, a volte, vuol dire organizzare la propria vita, provare a prevedere i rischi e gli insuccessi. Chi esiste e basta vuole evitare di sbagliare.
Mentre i suoi compagni di corso aspettavano con ansia di scoprire il risultato del loro esame d’ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia, lei sapeva già, dentro di sé, di avercela fatta.
Non è proprio così.
No?
No. Io sapevo qual era la mia strada, che cosa volevo fare. Ma non avevo nessuna certezza matematica di essere entrato al Centro Sperimentale. Ci speravo come tutti. E quando sono stato preso, per me è stata una gioia immensa. La mia era una sensazione.
E che sensazione era?
L’audacia di un ragazzino, quella presunzione che, almeno una volta nella vita, tutti abbiamo provato. Io sapevo che cosa volevo essere. Certamente non sapevo in che modo diventarlo.
Appena due anni dopo, in venti secondi, decise di lasciare il Centro Sperimentale per cominciare a lavorare.
Anche questo non è vero. Non ci misi solo venti secondi. Fu una decisione estremamente sofferta. Passai tutta la notte riflettendoci. Avevo trascorso un anno e mezzo al Centro, avevo i miei amici, la mia quotidianità, le lezioni. Non volevo andarmene. Stavo bene. Allo stesso tempo, però, volevo iniziare a lavorare.
Aveva trovato un impiego?
L’avevo trovato a Cinecittà, che rispetto al Centro stava dall’altra parte della strada. Ma non potevo portare avanti entrambe le cose. E non solo perché non era permesso dalla scuola, che richiedeva una frequenza assidua. Era materialmente impossibile. E così ho scelto.
E ha scelto il lavoro.
A malincuore, però: voglio sottolinearlo. Avrei voluto finire il Centro Sperimentale.
A Malcom Pagani ha detto che, quando ha scoperto il teatro, ha scoperto un luogo pericoloso. Qual è il pericolo del teatro?
Quando sei in teatro, sei esposto. Non c’è niente tra te e il pubblico, e ogni sera sei giudicato e senza rete. Sei nudo. Il teatro è un luogo di estremo pericolo soprattutto per un ragazzo di 16 anni che vuole provare emozioni forti. A teatro si può rimanere profondamente delusi. Non è facile fare l’attore; non è facile per niente. Adesso, dopo aver fatto questo lavoro per più di vent’anni, può sembrare tutto rose e fiori. Ma le assicuro che non è assolutamente così.
E com’è?
Chi fa l'attore si trova costantemente in un limbo di precarietà. Certo, c’è chi ha più certezze e più esperienza. E non voglio nascondermi. Ma recitare per mestiere significa muoversi su un confine sottilissimo.
Quando si capisce di essere un attore?
Non c’è nessuno che te lo certifica; non c’è nessuno che ti avvisa e che ti dice: guarda, tu da oggi sei un attore. La differenza sta tutta nella risposta a una domanda.
Quale domande?
«Che lavoro fai?» Chi è un attore risponde «faccio l’attore», chi non è un attore risponde «voglio fare l’attore». La garanzia di essere un attore è qualcosa che riguarda unicamente te stesso. Nessuno te lo può certificare, lo ripeto. Nemmeno le scuole.
Il suo primo incontro con Modigliani c’è stato tra i 4 e i 5 anni. Stava sfogliando uno dei libri di sua madre, pittrice. Che cosa l’aveva colpita?
Avevo cominciato a disegnare accanto a queste facce misteriose, quasi inquietanti, senza un motivo particolare. Non volevo imitarlo. Figuriamoci: ero un bambino. Però ricordo che queste figure mi avevano colpito – o almeno, è questo quello che credo di ricordare: sono passati un po’ di anni da allora – perché non avevano gli occhi.
Che cosa hanno in comune la pittura e il cinema, secondo lei?
Molte cose. Fellini, per dirne una, era un disegnatore pazzesco. E aveva cominciato così, disegnando. Il cinema, come sa, viene definito “settima arte”. E prende un po’ da tutte le altre arti, quindi anche dalla pittura. Il cinema è fatto di immagini in movimento accompagnate dal suono. Ma è fatto anche di teatro, con la messa in scena e il lavoro degli attori. In un quadro, conta la posizione delle figure. E la stessa cosa si può dire per un film. Onestamente, però, non credo che ci sia solamente questo; non credo che sia solo una questione di punti in comune e di definizioni, c’è altro. E questo altro non so nemmeno esprimerlo a parole. Il cinema è un insieme di tante, tante cose. Di variabili, di imprevisti, di occasioni mancate o di piccoli trionfi. Come sta l’attore in quel momento, com’è la luce; quanto tempo rimane.
E sta qui, secondo lei, la forza del cinema?
Grazie a questa contaminazione continua, il cinema diventa unico. Un quadro puoi farlo da solo. Così come puoi scrivere un libro da solo. Ma il cinema ha sempre bisogno di qualcuno… Oddio, puoi anche riprenderti da solo e interpretare e dirigere e scrivere. Però prima o poi, se vuoi far vedere il tuo film a un pubblico, dovrai collaborare con qualcuno.
Ha detto che lei e Johnny Depp, il regista di Modi, siete entrambi provinciali: lei viene da Andria, Depp dal Kentucky. La provincia non cambia mai faccia, anche se si trova dall’altra parte del mondo?
Essere provinciali è un punto di partenza, difficilmente un punto di arrivo. È una condizione da cui si inizia. Poi si parte, si va a Los Angeles o a Roma per riuscire, per diventare altro e trovare la fortuna sperata. Chi nasce in provincia cerca l’avventura. Con sé, porta sempre le sue radici. E insieme a queste radici, c’è pure una necessità di ribellione.
Ribellione contro cosa?
Innanzitutto contro sé stessi. Quella in atto, in chi proviene da un piccolo paese, è una vera e propria rivoluzione. Quando ci si sposta in una città che non si conosce, ci si espone. E anche quando arriva la fortuna, se arriva, bisogna essere pronti a viverla senza gli amici di sempre, senza i punti di riferimento, senza il bar, senza quella strada che facevi avanti e indietro da ragazzo, senza i luoghi che ti hanno sempre protetto: senza il mare, la spiaggia, senza casa. Sei da solo in mezzo a una moltitudine di persone. Per chi viene dalla provincia, questo bisogno di rivoluzione si traduce innanzitutto nel tentativo di rivoluzionare la propria esistenza e poi, magari, quella degli altri. Ed è una condizione fondamentale.
Suona ancora la batteria?
Sì, quando ne ho la possibilità sì.
Prima le ho chiesto delle cose che hanno in comune il cinema e la pittura. Invece, la recitazione e la musica che cosa condividono?
Il ritmo, prima di tutto. Per un attore il ritmo è fondamentale. E se ci pensa, lo strumento di un attore è il suo corpo: le braccia, le gambe, la faccia. Ma anche i polmoni e il diaframma. L’attore vibra come vibrano le corde di una chitarra.
C’è un assolo di batteria che le piace particolarmente suonare?
Non sono un professionista. Ho suonato in qualche band, anche dal vivo, ma resto un batterista occasionale. Gli assoli migliori, quelli che mi vengono in mente ora, sono gli assoli di Tullio De Piscopo, Vinnie Colaiuta e Buddy Rich. In un assolo di batteria, c’è la manipolazione del tempo. E questo, se ci pensa, è anche quello che fa un attore: manipola il tempo.
Vittorio Gassman o Carmelo Bene?
Questa è da stronzi… (ride, ndr) Non posso non risponderle Carmelo Bene.
Perché?
Be’, Carmelo Bene è il mio spirito guida. E non solo come attore. È il mio spirito guida in senso assoluto. Quando mi guardo attorno e va tutto male, quando ho dei momenti di stanchezza e di sfiducia; quando mi sembra che non ci sia più niente da fare o da dire, quando mi passa la voglia di prestarmi a queste dinamiche tra registi, produttori e attori, che non hanno assolutamente niente a che vedere con la recitazione o con le riprese di un film, mi basta guardare qualcosa di Bene per riprendermi.
Per esempio?
Per esempio l’intervista che gli fece Sandro Veronesi, Carmelo Bene versus Cinema. Bene fa il cinema a pezzi, letteralmente. Ed è un’invettiva meravigliosa. Ecco, io quando guardo quell’intervista mi placo e mi dico che va tutto bene.
A 16 anni, come diceva anche lei prima, ha esordito in teatro, con Miseria e nobiltà. Che ricordi conserva di quell’esperienza?
Ricordo l’incontro pazzesco con il teatro, con quella dimensione. Era la mia prima volta su un palcoscenico. In sala c’erano ottocento persone, che sono tante. E io mi fottevo di paura. E quella paura, prima di entrare in scena, è stata una sensazione incredibile. Non riuscivo a capacitarmene. Quell’emozione è il motivo per cui faccio questo mestiere.
Che emozione è?
Non è solo l’adrenalina e la voglia di fare bene; è pure lo sguardo del baratro e la possibilità di poter fallire. L’attore si muove sempre in bilico, lo dicevo anche prima. Non c’è mai unicamente la ricerca di affermazione. C’è pure il desiderio di rischiare. E di questo fallimento si sente quasi un bisogno. Il trionfo è riuscire ad arrivare a un passo dalla fine, a un passo dal fallimento, e comunque farcela.
Sempre intorno ai 16 anni, quando andava a scuola, faceva spesso sega.
Sì.
E che cosa faceva quando saltava le lezioni?
Rimanevo a casa. Aspettavo che i miei andassero a lavorare e poi, verso le nove, rientravo e guardavo film.
Si preparava per fare il responsabile del cineforum al suo liceo.
Era il primo anno di liceo classico. C’era l’autogestione, e io mi occupai del cineforum.
Che film metteva?
De Sica, Leone, Scola, Hitchcock. Passavo da C’era una volta in America a C’eravamo tanto amati.
Quanto male facevano gli schiaffi di Damiano Damiani, con cui ha lavorato?
Abbe’. (ride, ndr) Quando sbagliavi qualcosa, quando eri fuori tempo, Damiano te ne tirava uno… E anche quella era scuola.
In che modo?
Era la dinamica del vivere nel momento, dell’essere presenti a sé stessi e agli altri. Significava risolvere i problemi senza girarci intorno. In questo mestiere, serve anche un certo pragmatismo… Quel pragmatismo, se vuole, che si prova quando si costruisce un tavolo o si zappa la terra. C’è bisogno di sporcarsi le mani e di ritrovare un contatto più vero.
Uno dei temi cardine di Modi è il talento: Modigliani sa di averlo, ma non riceve riconoscimenti dal mondo esterno; arrivano i dubbi, eppure lui insiste, va avanti, rilancia. A lei chiedo: quando e come si capisce di avere talento?
Lo capisci quando ti ritrovi in scena. Se provi piacere o disagio.
Il disagio passa mai?
No, un po’ si prova sempre. Ma è da questo rapporto costante e tesissimo tra piacere e disagio che viene fuori il talento.