di Gianmaria Tammaro
In Diva Futura, Denise Capezza si è trasformata in Moana Pozzi dopo averla studiata con attenzione. Guardando le sue vecchie interviste e ascoltando le testimonianze dei suoi amici, ha capito il senso profondo di sensualità ed eleganza. Oggi è in Turchia per le riprese di una serie in costume. Quello di cui ha più bisogno ora, dice, è fermarsi per ritrovare il proprio centro. L’intervista.
In Diva Futura di Giulia Louise Steigerwalt, Denise Capezza si è trasformata in Moana Pozzi. Ha usato ogni cosa: la faccia, la voce, lo sguardo e i silenzi. Si è mossa piano, in punta di piedi, ed è entrata nelle scene senza imporsi, ma trovando immediatamente il proprio posto. Ha provato a conoscere la persona oltre il personaggio e a fare sua una verità: in un ruolo lo studio dei dettagli conta tanto quanto la libertà della fantasia. In questi giorni Capezza è in Turchia per le riprese di una serie tv in costume (Şakir Paşa Ailesi: Mucizeler ve Skandallar, ndr). Mi dice che è un lavoro che non si ferma mai, che ha i suoi tempi, e che non lascia molto spazio per altro.
Non vede l’ora di poter rallentare. Perché, mi spiega, le pause servono. E non solo per riprendere fiato e per riposarsi, ma pure per dare un ordine nuovo alle proprie priorità. Quando pensa a Moana, Capezza pensa alla sua sensualità spontanea, al suo essere così profondamente e naturalmente spirituale. Interpretarla, mi spiega, è stato più di un viaggio: è stata un’esperienza di vita che le ha permesso di imparare cose di cui, prima, non sapeva assolutamente niente. Anche su sé stessa.
Quanta paura avevi di interpretare Moana Pozzi?
«Tantissima. Avevo un’ansia costante. Intendiamoci: quando ho saputo di aver ottenuto la parte sono stata molto felice, perché ci tenevo molto».
È stato difficile interpretarla?
«Lo è stato, sì, e sotto diversi aspetti. Prima di tutto, fisicamente. Se mi guardi, io e Moana non siamo così simili. Mi sono dovuta trasformare e adattare, e non solo nei piccoli gesti. I provini sono stati intesi, e quando mi hanno detto di essere stata scelta ho sentito una gioia immensa».
Però?
«Però rimaneva anche questo terrore di fondo, che mi faceva ripetere sempre la stessa domanda».
Cioè?
«“E ora come farò?”»
E che cosa ti sei risposta, alla fine?
«Ho cercato la mia strada. Moana rappresenta ancora un mistero per tutti noi. Ed è un personaggio veramente complesso. Quando ho letto la sceneggiatura, mi sono resa conto che la difficoltà maggiore era riuscire a raccontare e a esprimere questa complessità in un film sostanzialmente corale».
Qual era il tuo obiettivo?
«Provare a riempire ogni singolo istante, senza nessuna distinzione. Anche un semplice sguardo, per me, poteva fare la differenza. Ero davvero spaventata, credimi. E lo sono stata dall’inizio alla fine. Non volevo portare in scena una menzogna. Ho studiato, e ho provato a conoscere la vera Moana attraverso i libri, le interviste e quello che hanno detto di lei le persone che l’hanno incontrata. Oppure attraverso quei momenti, brevissimi, in cui non sapeva nemmeno di essere ripresa».
E la fantasia?
«La fantasia serve, è uno strumento. In Diva Futuro ci sono personaggi che si raccontano completamente, riprendendo anche la loro infanzia. Nel caso di Moana, per alcuni collegamenti, era importante costruire e ricostruire. Non inventare di sana pianta, attenzione. Ma provare a colmare quei vuoti che potevano rallentare la storia. E poi Moana aveva un pudore incredibile; cercava di mostrarsi sempre sorridente».
Avete usato anche materiali di repertorio.
«Sì, e abbiamo provato a renderli ancora più intensi. Come il confronto con D’Agostino, che oggi è praticamente impossibile da trovare online».
E lì viene fuori la fragilità di Moana.
«Doveva confrontarsi costantemente con il pregiudizio degli altri, e provare a conviverci. Io penso che Moana si sentisse bloccata, presa tra più fuochi: quello che pensavano gli altri, quello che volevano sapere, e quello che invece era davvero. Moana era costantemente in evoluzione; non si accontentava di ciò che aveva. La sua era soprattutto un’evoluzione spirituale. E in quest’evoluzione, veniva schiacciata dal pregiudizio».
Alla fine di quest’esperienza, hai capito che cosa rendeva Moana Moana?
«La sua eleganza, innanzitutto. Un’eleganza che partiva dalla voce, e la voce nel caso di Moana era identitaria. Per questo ho voluto lavorarci tanto. La sua sensualità e il suo garbo partivano proprio dal tono e dal modo in cui lo modulava. In molte interviste, la sua voce cambiava, non era sempre la stessa; voleva trattenerla o comunque controllarla».
Dove nasce la sensualità?
«Mi viene in mente una risposta che ha dato Moana una volta. Sicuramente è una cosa che nasce dentro di noi, che non ha per forza a che fare con un corpo nudo. La sensualità è un modo di accogliere l’altro. La sensualità e l’erotismo sono una specie di energia, e alcune persone ne hanno di più e altre di meno. Ci sono persone che si confrontano con il mondo intero grazie alla sensualità. Forse, ecco, è una dote innata. E non c’è sensualità se c’è forzatura».
Che cosa hanno in comune la danza e la recitazione?
«In entrambi i casi, si interpretano dei personaggi. Nella danza, non hai parole; puoi usare solo il corpo. Forse è una cosa che oggi si sta perdendo, perché la danza sta diventando sempre più virtuosistica. In passato non era così. Pensiamo alla nostra Carla Fracci o ad Alessandra Ferri, che secondo me ha interpretato la Giulietta migliore nel balletto classico. E questo perché, oltre alla tecnica, c’era pure un aspetto interpretativo. La recitazione e la danza restano due arti diverse, che ti offrono piaceri diversi. La danza, forse, è più liberatoria. Quando danzi, pensi ai passi che devi fare, ma il tuo cervello è completamente immerso nella musica».
Nella recitazione, invece?
«Nella recitazione, una cosa del genere può succedere quando si è molto rilassati e non hai la pressione delle riprese o della macchina enorme del set. Forse, la recitazione è più liberatoria in teatro, quando sei da solo con il palcoscenico e il pubblico».
Qual è la cosa più interessante della preparazione di un personaggio?
«La possibilità di scoprire storie o persone che magari, prima, non conoscevi. Nel caso di Moana, ho conosciuto il porno sotto un altro punto di vista, con il suo percorso italiano e con le sue contraddizioni. E poi ho potuto cogliere il senso del pudore nella sua essenza».
Come?
«Osservandolo da una prospettiva totalmente diversa, inedita per me».
Sia la danza che la recitazione conservano una certa dose di solitudine.
«Sì, è così».
Tu che rapporto hai con la solitudine?
«Brutto. Non mi piace. Non sono una persona che ama stare sola. E credo che nemmeno le persone che dicono il contrario ne siano veramente convinte».
No?
«No. Anche Moana lo ripeteva spesso: io sto bene sola. Ma in realtà, penso che tutti abbiamo bisogno dell’altro. Noi esistiamo perché qualcun altro ci vede, ci riconosce, perché ci capisce. E a me lo scambio serve».
Quindi sei una persona estremamente socievole?
«No. (ride, ndr) Per niente. Però a volte, come ti dicevo, mi serve».
Suoni ancora il pianoforte?
«Purtroppo no. Però avevo cominciato a strimpellare la chitarra proprio per Diva Futura, per una scena che poi non abbiamo fatto. È un po’ come la danza, la musica».
In che senso?
«Nel senso che ti permette di dimenticare te stesso».
La danza, hai detto, ti ha portato a confrontarti con i limiti del tuo corpo.
«Sì».
La recitazione, invece, con quali limiti ti ha fatto confrontare?
«Io spesso faccio fatica ad avere fiducia negli altri; sono una persona molto diffidente. E questo, nel mio lavoro, è un limite. Quando sei su un set, devi affidarti a un regista che ti dirige. Perché è la sua visione quella che devi mettere in scena».
E riesci, poi, ad affidarti?
«Ci riesco, certo, ma faccio una fatica enorme. Forse questo è uno dei motivi per cui un giorno proverò a dirigere. Ho un punto di vista netto sulle cose. E se da una parte è positivo, perché mi aiuta, dall’altra può essere – come ti dicevo – un limite».
Qual è il problema?
«Il problema è che, in generale, abbiamo poco tempo. E non abbiamo modo di costruire dei veri e propri rapporti, di sederci a tavolino e di discutere. La fiducia è qualcosa che si conquista, no? E invece nel caso dell’attore serve una distanza. Senza distanza, rischi di ammalarti, di tenerci troppo, di trasformare il lavoro in un’ossessione».
Quanti tipi di registi ci sono?
«Semplificando molto, ti direi che ce ne sono tre. Quelli che ti danno delle indicazioni chiare e che ti dicono immediatamente ciò che serve. Quelli che, invece, provano a lasciarti libera. E quelli che prima ti dicono che sei libera e che poi intervengono spiegandoti che cosa devi fare».
Hai conservato qualcosa dal set di Crimes of the Future di David Cronenberg?
«No, purtroppo no. Volevo prendere una delle protesi, ma non me le hanno date. (ride, ndr) Ci sono le foto: quelle con David e con Léa (Seydoux, ndr)».
Che persone hai conosciuto su quel set?
«Persone fantastiche. E non è un modo di dire, credimi. La prima volta che ho incontrato David mi ha salutato in italiano e abbiamo parlato per più di un’ora. Io ero molto ansiosa. E invece è stato veramente gentile. È un uomo che si prende poco sul serio».
Che non è una cosa che succede spesso.
«No, per niente. Di solito sono i più grandi quelli che si prendono meno sul serio. Proprio perché capiscono la natura del lavoro che stanno facendo e ti vedono come un collaboratore, non come un rivale. Una volta mi è capitato di parlare con Julian Schnabel e mi ha sorpreso».
Perché?
«Perché mi conosceva. Perché prima di incontrarmi si è preso il disturbo di studiare quello che avevo fatto. Ho girato una piccola scena per il suo ultimo film (In the hand of Dante, ndr), e avevo chiesto una cosa al suo aiuto regia. Allora lui mi ha mandato un messaggio e il giorno dopo, mentre stava lavorando con John Malkovich e Al Pacino, mi ha chiamata. Mi ha sorpreso molto, ripeto».
Che cosa ricordi del periodo che hai passato a Milano quando eri più piccola?
«Ricordo che fui quasi costretta a cambiare corso di danza, e che non riuscivo a trovarne uno adatto a me. Ricordo che pensavo di essere indietro con il lavoro; sentivo che stavo perdendo tempo. E poi mi ricordo il modo in cui mi trattavano i miei compagni di scuola, che mi prendevano in giro per i miei vestiti, che non erano firmati, e per il mio accento. A volte, lo facevano anche gli insegnanti. È stato un periodo molto triste della mia vita. Mi ricordo che disegnavo sempre, in continuazione».
Ti aiutava?
«Era il mio modo per riempire il tempo e quel vuoto che si era creato».
A proposito di disegno, so che hai disegnato la bomboniera del tuo matrimonio.
«Sì! (ride, ndr) Però non disegnavo da anni. Da piccola lo facevo in continuazione, non mi fermavo mai. Ho ripreso la matita per il mio matrimonio, ed è stato divertente».
Di che cosa senti di avere bisogno oggi?
«Di tempo libero. Di tempo per me stessa e per le persone che amo. Questi sono stati anni molto intensi, dal punto di vista del lavoro. Ora che sono in Turchia sto girando secondo dei ritmi veramente frenetici. E poi sento di aver bisogno di un’altra cosa».
Dimmi.
«Di dedicarmi a qualcosa che non sia per forza la recitazione. Ho bisogno di equilibrio. La mia mente è sempre affollata da tante idee e tanti sentimenti, e c’è il rischio di sentirsi persi in questo marasma».
È difficile trovare una distanza dal lavoro? È difficile, come dicevi anche tu, prendersi una pausa?
«Per me sì, e lo è sempre stato. Perché ho sempre provato una voglia costante di fare, di esserci. Una specie di irrequietezza. Ora, però, ho capito».
Che cosa?
«Che fermarsi non è mai un problema. Soprattutto oggi, nel mondo in cui viviamo, dove tutti vanno di fretta. Voglio poter scegliere il prossimo progetto, e voglio poter fare solo quello che credo mi possa davvero arricchire».
La foto di copertina è stata scattata da Maddalena Petrosino, mentre le foto di scena di Diva Futura sono state scattate da Lucia Iuorio. Make-up and hair: Fulvia Tellone per Simone Belli Agency. Styling: Upgrade artist. Look: Ermanno Scervino. Gioielli: Bulgari. La grafica è stata curata da Claudio Montani.