di Gianmaria Tammaro
Dalla decisione di lasciare l’università a cinque esami dalla laurea al colpo di fulmine con la recitazione. Dall’esperienza in Cina, dove ha passato un anno, a quella sul set de Il Turco, il suo primo progetto internazionale. E poi l’incontro con Giorgio Armani, l’amore per l’arte, il rapporto con sua madre, sua sorella e sua nonna. L’intervista.
A Greta Ferro piace il colore blu perché le ricorda il mare. La sera, prima di andare a dormire, quando è in bagno a lavarsi i denti o a struccarsi, ascolta musica e balla. Dice che dipende molto dal momento in cui si trova e da quello che sta cercando. Nella sua casa di Milano, in una delle stanze più private, tiene la lettera che le ha mandato Giorgio Armani. Accanto al suo letto, invece, è appeso il disegno di Lorenzo Mattotti che le ha regalato Germano, il suo compagno.
La felicità, mi spiega Greta, è fatta di queste cose: di piccoli momenti di pura gratitudine. Ha scelto di recitare nonostante le resistenze iniziali della sua famiglia perché si è sentita accolta. A cinque esami dalla laurea, ha lasciato l’università e si è decisa ad abbracciare fino in fondo il suo desiderio. Dopo film e serie, sta per tornare con il suo primo progetto internazionale, Il Turco.
Durante le riprese, mi racconta di aver passato molto tempo a cavallo, anche quando era libera e poteva fare altro. I cavalli sono animali sensibili, mi dice, e capiscono immediatamente che cosa provi. Con la sensibilità, Greta ha imparato a fare i conti presto. Ha conosciuto la solitudine, quella più nera e terribile, e ha capito come trasformarla in una sua alleata. Oggi è sicura di aver trovato il suo equilibrio. Quello che spera è di poter continuare così, sulla stessa strada, per migliorarsi e migliorare.
In una vecchia intervista, avevi detto di non riuscire a stare a Milano. Oggi, però, hai casa lì.
«In realtà, per questioni di cuore, continuo a fare avanti e indietro tra Milano e Bologna. Ed è una fortuna poter vivere in due città».
E non ti pesa andare avanti e indietro?
«No, non mi pesa. In questo modo, posso vivere il bello di entrambe le città».
Sei riuscita a trovare un equilibrio nella tua vita?
«È una cosa che provo a fare sempre. Rappresenta una sorta di tutela emotiva, avere una distanza con il proprio lavoro. Devo avere del tempo per me stessa. Quando vado al parco con il mio cane, incontro le mie amiche. E sono amiche mature, che hanno più di 65 anni. Non hanno nessuna curiosità irrispettosa nei miei confronti. Parliamo tranquillamente, in modo molto umano. Non mi chiedono della mia vita privata. E la mia vita privata deve rimanere esattamente questo, privata. Non può essere data in pasto agli altri».
È difficile stringere legami profondi con chi fa il tuo stesso lavoro?
«Dipende dalla persona che ti trovi davanti. È un discorso particolare. Anche perché, secondo me, non ha senso invidiare qualcuno per un ruolo. Se lo ha ottenuto, significa che lo meritava, che era la persona più adatta per interpretarlo».
È una consapevolezza così immediata, questa?
«Non è immediata. Però se vai come me in terapia, riesci a risolvere questa parte di te stesso più insicura. Non puoi vivere accecato dalla gelosia. Non nel cinema».
E gli amici, allora, chi sono?
«Gli amici sono amici a prescindere dal lavoro. Sono amici per i valori che hanno e che, poco o tanto, condividono con te».
Quando hai cominciato ad andare in terapia?
«Circa quattro anni fa. Devi comunque considerare che quando parti, quando devi recitare in un progetto, tendi a mettere la terapia in pausa e a riprenderla quando hai finito. Sembra che adesso il mio percorso sia quasi finito».
Che tipo di sfida è quella di accettare di avere bisogno di qualcun altro? E non mi riferisco solo alla terapia.
«Capirlo non è complicato. È complicato chiedere aiuto. È complicato, insomma, l’atto in sé. In Italia, culturalmente siamo abituati a dover fare da soli, come se fosse una mancanza chiedere aiuto agli altri».
E invece?
«Invece è una grande, grandissima possibilità che abbiamo. E dobbiamo imparare a coglierla».
Davanti a una richiesta esplicita di aiuto, quanto è difficile trovare una persona disposta a rispondere?
«Anche qui dipende».
Da cosa?
«Da quanto l’altro è disposto ad ascoltare. Io ho avuto la fortuna di avere accanto a me persone che hanno vissuto le mie stesse esperienze e che per questo avevano una certa sensibilità. D’altra parte, ho dovuto insegnare ad altre persone come fare a gestire – e faccio un esempio – un attacco d’ansia o di panico».
E le hai trovate, queste persone disposte ad ascoltare?
«Ho degli amici che sono sempre pronti. Pensa che una volta ero a una cena, e ho chiesto a una mia amica di venire via con me, proprio perché non ce la facevo a rimanere in quel posto. E lei ha capito immediatamente».
Ti capita ancora di cantare?
«Cantare?»
Se non sbaglio, hai studiato canto, pianoforte e danza.
«Danza no, mai fatta. Però ho un’insegnante di canto, che continuo a vedere. Ora sto imparando a riorganizzarmi in modo da avere una routine anche nello studio».
Ti piace la musica?
«Più che la musica in sé, che mi piace, provo a seguire un percorso sulla mia voce. La voce è uno strumento fondamentale per un attore, ed è importantissimo conoscerla, sapere fin dove poterla portare e spingere. E poi adoro cantare».
Quando canti?
«Quando sono sola, di solito. Ma ultimamente preferisco ballare. Soprattutto la sera, prima di andare a dormire. Mentre mi lavo i denti o mi strucco, metto qualcosa e ballo».
Qual è la canzone migliore su cui ballare da soli?
«Dipende da come ti senti. Personalmente, posso passare dalla colonna sonora di M – Il figlio del secolo, che per me è incredibile, a Ca7riel & Paco Amoroso. Oppure, non lo so, posso ascoltare qualche brano di Bad Bunny. Quando mi metto a letto, cambia ancora. E la musica diventa qualcosa di più dolce e delicato, come possono essere le canzoni dei The National».
Come hai fatto a convincerti a lasciare l’università nonostante le insistenze della tua famiglia?
«Con la terapia, ecco come. Ogni tanto, non te lo nascondo, penso di tornare all’università e di finirla».
Però?
«Però non lo direi mai alla mia famiglia, proprio per non dover affrontare le loro aspettative. Se succede, sarà perché lo voglio io».
Che rapporto hai con tua madre?
«Uno di profonda gratitudine. Nonostante la sua rigidità, è stata lei a insegnarmi tantissime cose. Mi ha portato con lei all’estero, mi ha fatto studiare l’inglese e mi ha fatto capire come comportarmi nel mondo e stare in ambienti diversi. Mi ha sempre portato in giro per musei. Nella mia famiglia, la curiosità è fondamentale. Poi abbiamo avuto anche un rapporto estremamente conflittuale. Di solito, ci si allontana dai genitori durante l’adolescenza. A me è successo dopo».
E quando si capisce di essere diventati adulti?
«Quando compri il tuo primo aspirapolvere? (ride, ndr) Non so se si capisce. Forse diventi adulto quando non chiami più i tuoi genitori per chiedere aiuto. Oppure quando riesci a chiamarli senza farti problemi, perché ti riconosci come persona responsabile che parla con altre persone responsabili».
Con tua sorella Ginevra, invece, che rapporto hai?
«Bellissimo. Ginevra è il dono più grande che mi abbiano fatto i miei genitori. A volte mi fa incazzare, non te lo nascondo. Abbiamo otto anni di differenza. Ma ora che è più grande, è una spalla, una presenza costante, un punto di riferimento».
Che cosa vuol dire essere la sorella maggiore?
«Vuol dire innanzitutto crescere con più regole, quelle stesse regole che i figli più piccoli possono infrangere quasi senza problemi. Però significa anche instaurare un rapporto di totale fiducia con un’altra persona. Io do dei consigli a mia sorella che sono basati interamente sulla mia esperienza, e sono consigli che le do per aiutarla».
Prima la moda, poi la recitazione. Come ci sei arrivata?
«È una cosa che ho sempre voluto, fin da bambina. E poi è stato un luogo dove mi sono sentita immediatamente accolta. Non avere un titolo, un’etichetta, qualcosa che ti definisce, è stata una scelta coraggiosa per me. Quando dico alle persone che ho lasciato l’università a cinque esami dalla fine, si sentono tutti in diritto di dirmi di continuare. Ma non deve essere così. Sono io che decido per me».
I tuoi genitori, alla fine, hanno accettato la tua decisione di fare l’attrice?
«Non lo so. È una domanda che dovrei fare a loro. Ma alla fine, sai, non mi interessa».
In che senso?
«È una scelta che riguarda me e me soltanto. Se sono contenti, sono contenta anche io. Ma per me è importante innanzitutto sentirmi nel posto giusto. Ora sono sicura che sono felici, ma ricordiamoci sempre che questo è un mestiere precario, fatto di periodi molto pieni e di periodi completamente fermi. L’ansia dovuta a questa precarietà è difficile da capire. Pensa che dopo il COVID, quando stava per uscire Made in Italy, una persona, non ti dirò chi, mi ha detto che il cinema, che questo mondo, era finito».
E tu come hai reagito?
«Non ho parlato con questa persona per un mese e mezzo. È una cosa terribile da dire. Anche perché tu già convivi con questa ansia».
Come affronti le lunghe pause tra un set e l’altro?
«Ora va meglio perché sto imparando a gestirle. Prima non ti nascondo che cadevo in uno stato di profonda depressione. Perché sentivo la mancanza del set e del suo caos, delle persone, di quel marasma creativo».
Come usi il tempo libero?
«Studiando, preparandomi. Provando a rilassarmi. E guardando film. Ne guardo almeno uno al giorno. Vedo costantemente cose, proprio per imparare. Ovviamente ci sono degli alti e bassi. Non sono sempre giornate facili».
Che cosa hai portato via dal set de Il Turco?
«I costumisti mi hanno regalato il mio corsetto verde, che è un elemento distintivo del mio personaggio, Gloria».
In che modo?
«I costumi sono fondamentali in questa serie. Fanno parte del periodo storico in cui la storia è ambientata e contribuiscono profondamente alla caratterizzazione del personaggio che interpreti. Gloria sta sempre dritta, e sta dritta proprio grazie a quel corsetto. E questo suo stare sempre dritta dice molto di chi è».
Come si riconosce la storia giusta, quella per cui vale la pena di insistere?
«Questo, forse, è più il lavoro dell’agente. Il mio lavoro è capire che cosa dice il personaggio, se in qualche modo mi parla. Questo mestiere è immenso, se ci pensiamo. Perché io posso diventare lo strumento di un messaggio. O, al contrario, posso essere qualcosa di estremamente lontano da ciò che sono. Non giudico mai il mio ruolo. Anzi, provo sempre a difenderlo, a trovare una posizione da cui poterlo osservare in modo onesto».
Hai imparato ad andare a cavallo lavorando a Il Turco?
«In realtà, ci sapevo già andare. Non benissimo, intendiamoci. Però non è stata la mia prima volta. Il Turco mi ha dato sicuramente la possibilità di poter passare più tempo in sella, e di poterlo fare anche nei momenti di vuoto sul set».
Qual è il tuo colore preferito?
«Il blu».
Perché?
«Perché mi ricorda il mare».
Quindi tra montagna e mare, tu scegli il mare.
«Sì, assolutamente. La montagna è bellissima, ma io vivo sottacqua».
Prima parlavamo della difficoltà che spesso, anche tra attori, c’è nell’ascoltare l’altro.
«Sì».
Però al di là di questo lavoro di gruppo, credo che resista anche una certa solitudine nella recitazione. Tu che rapporto hai con la solitudine?
«Ora la cerco. Prima no, non era così. Oggi ho imparato a non vederla più come una nemica. La solitudine, sai, spaventa».
Perché?
«Se non la conosci, come succede con tutte le cose, tende a fare paura. La solitudine sembra avere una connotazione quasi negativa. Ma non è così. Se sai come gestirla, come viverla, scopri il suo vero valore».
Com’era la Greta che andava al liceo Mario Pagano?
«(ride, ndr) Ero un’adolescente, e come tutti gli adolescenti a volte avevo difficoltà a sentirmi accettata. Però questa è una battaglia che affrontiamo innanzitutto con noi stessi e che solo in un secondo momento si trasmette all’esterno. Al liceo ero insicura ma anche molto curiosa. E poi, grazie al cinema, ho imparato l’importanza di non giudicare gli altri. Sono sicura, questo sì, di essere stata una brava ragazza».
Dove tieni la lettera che ti ha mandato Giorgio Armani?
«Qui a Milano».
È vicina al disegno di Lorenzo Mattotti?
«No, non è vicina al disegno di Mattotti, ma è in una stanza privata, dove entrano poche persone».
Che cosa significa per te quella lettera?
«È la lettera di una persona che ha creduto in me, ed è un riconoscimento molto importante. Armani, che è un uomo incredibile, ha visto qualcosa in me. E saperlo è fonte di gioia».
Perché?
«Perché se qualcun altro ha notato qualcosa in me, posso crederci anche io».
Che cosa ti piace, invece, del disegno di Mattotti?
«Quello lo tengo vicino al mio letto, un altro angolo molto privato della mia casa. E di quel disegno mi attrae la sua intimità. Nei colori di Mattotti, spesso, c’è una pace incredibile. O almeno, ecco, è questa l’impressione che ho io. Nell’arte di Mattotti, esiste un attimo preciso, che vive in eterno».
L’hai scelto tu, questo disegno?
«No, mi è stato regalato da Germano. Quindi è un’espressione anche di amore per me».
Come mai tutti i tuoi animali hanno un nome che comincia con la “O”?
«Nella mia famiglia, se ci fai caso, abbiamo solo nomi che iniziano con la “G”. E questa cosa, in qualche modo, coincide con un senso profondo di appartenenza. Ecco, volevo creare un’altra famiglia con i miei animali».
Quando eri al liceo, sei andata per un periodo in Cina. Ti è capitato di tornarci?
«No».
Ti piacerebbe farlo?
«Forse sì, ma non adesso. In Cina ho conosciuto la solitudine, quella più nera e profonda. E ho vissuto la Cina più autentica. E per ora ho voglia di esplorare altri posti».
Prima mi hai detto che quello che ascolti dipende molto da quello che cerchi.
«Sì».
Tu adesso che cosa stai cercando?
«In questo momento, ho raggiunto un equilibrio. E sono molto felice, credimi, di quello che ho. Quello che mi auguro è di poter continuare a crescere e a lavorare».
Che cosa c’è sul tuo comodino?
«C’è un libro, Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estés, che devo iniziare. E c’è una lampada. E poi ci sono la crema per le mani, il burro cacao e uno spray che mi ha consigliato mia nonna e che mi aiuta ad addormentarmi».
Mi pare che tu sia molto legata a tua nonna.
«Sì, e questo perché sono cresciuta con lei. Tutti i miei nonni hanno avuto un peso importante nella mia formazione. Con mia nonna materna, però, ho passato lunghi periodi di tempo, soprattutto d’estate. E stando così tanto con lei, ho finito per assorbire ciò che sa».
Come definisci, oggi, “casa”?
«Per me è un rifugio, ed è pace. Un posto dove posso tornare e sentirmi protetta».
E coincide con un luogo fisico o è più un’idea?
«Coincide con un luogo fisico ed è pure un’idea, un’idea che corrisponde alle persone con cui passo le mie giornate. Milano, probabilmente, non è la città dove vivrò per il resto della mia vita. Ma la casa che ho qui è un luogo a cui sento di appartenere, così come sento di appartenere al mare e alla casa in Molise».
Dove si nasconde la felicità, secondo te?
«Può sembrare una risposta banale, ma credo che la felicità si nasconda nei momenti più piccoli. Perché è in questi momenti che riesci a sentirti veramente grata e veramente in pace con te stessa».
Il Turco andrà in onda su Canale 5 l’8 e il 15 aprile. La foto di copertina è stata scattata da Paolo Musa. La grafica è stata curata da Claudio Montani.