di Gianmaria Tammaro
Dall’esordio in Io speriamo che me la cavo di Lina Wertmüller al primo film di Greta Scarano, La vita da grandi, in questi giorni al cinema. Dall’esperienza in teatro, tra consapevolezza e paura, alla decisione di fare l’attore. E poi l’incontro con Paolo Villaggio, la tournée di Gomorra e il bisogno di andare in scena e di cambiare. L’intervista.
C’è stato un momento, mi racconta Adriano Pantaleo, in cui ha capito di voler fare l’attore per il resto della sua vita. Ed è stato quando ha scoperto di essere diventato padre. Mi dice che il suo è un mestiere difficile, senza nessuna certezza, ma è pure il mestiere che si è scelto, che ama e di cui non riesce a fare a meno. In questi giorni, è al cinema con La vita da grandi, il film d’esordio di Greta Scarano, ed è in tournée con Premiata Pasticceria Bellavista. Il grande e il piccolo schermo gli hanno permesso di prendere una pausa, a un certo punto, dal teatro. Ma alla fine ha sentito il bisogno di tornarci, proprio per riprovare quel miscuglio incredibile di emozioni.
Pantaleo ha fatto il suo esordio da piccolissimo, in Io speriamo che me la cavi. Sul set del film di Lina Wertmüller ha incontrato Paolo Villaggio e ha cominciato a fare i conti con il resto della sua vita. Grazie a sua figlia Margherita, anche lei attrice, ha avuto modo di riflettere sul suo passato e sulle scelte che ha fatto. Da piccolo non gli mancavano né le feste né le partite di pallone. Il set, e quindi la dimensione della recitazione, erano il suo mondo e, soprattutto, il suo campo di gioco. Crescendo, è arrivata la consapevolezza. E insieme alla consapevolezza, oggi, sopravvive anche la voglia di divertirsi.
Che vita è la vita in tournée?
«Sai che ne parlavamo proprio in questi giorni? Di tournée, personalmente, ne ho fatte tantissime. In questi anni però le cose sono un po’ cambiate, soprattutto dopo il COVID. Oggi è difficile fare tournée lunghe. Quella di Premiata Pasticceria Bellavista è una tournée media, diciamo così; durerà per qualche mese. E la verità è che non tutti sono fatti per questa vita».
No?
«No. Ogni giorno devi essere pronto a cambiare, a spostarti, a viaggiare. Devi essere disposto ad adeguarti. E devi trovare anche un equilibrio, una chimica, con i tuoi compagni. Hai lo stress degli spostamenti continui, e a un certo punto, volente o nolente, finisci un po’ per soffrire per la lontananza da casa. È un’esperienza che ti mette alla prova, questa della tournée. Fisicamente e mentalmente. Ma io non riesco a farne a meno. Ho un vero e proprio debole per le emozioni che si provano».
Creano dipendenza, queste emozioni?
«A volte sì. (ride, ndr) Come ti dicevo, non è una vita per tutti questa. E più passa il tempo, più cresci, e più diventa difficile. Me ne rendo conto anche io, che sono ancora giovane. La cosa incredibile è vedere questi attori che vanno avanti fino alla fine, bellissimi e magnifici. Sempre sul palco, sempre preparati, sempre decisi e convinti. Guardandoli, viene spontaneo chiedersi come facciano».
Secondo te?
«Secondo me, resistono il bisogno e il desiderio di andare in giro e di continuare ad andare in scena».
Il teatro, che chiede così tanto agli attori, fa paura?
«Sì, fa paura. Ma è una paura che alla fine cerchi. È un brivido di cui non riesci a fare a meno, te lo ripeto. Andare in scena ha dentro di sé una carica quasi masochistica. (ride, ndr) Ogni volta, prima di andare in scena, anche se sei un veterano, anche se l’hai già fatto la sera precedente, ti chiedi metti in dubbio tutto e vuoi tornare indietro».
Però?
«Però poi vai comunque avanti, e si crea come un circolo infinito di ansie e desideri. Quando ce la fai, quando poi superi questa paura, provi un’eccitazione fortissima. Ti faccio un esempio».
Dimmi.
«Una delle mie prime esperienze in teatro è stato lo spettacolo di Gomorra, quando il libro di Roberto Saviano non aveva ancora raggiunto il successo che poi ha raggiunto. Quell’esperienza mi ha fatto capire molte cose. Anche perché siamo passati rapidamente da piccoli palchi a palchi internazionali. E ogni volta, credimi, mi facevo sempre la stessa cosa».
Cioè?
«“Chi me l'ha fatto fare?”»
E che cosa ti rispondevi?
«Quello che ci si risponde sempre, se si ha un po’ di onestà. Ero stato io a mettermi in quella situazione, proprio perché lo volevo. Gomorra è stata una grande lezione. Non c’era nessun grande nome a cui affidarsi; c’eravamo solo noi. E la responsabilità era nostra. Ecco, il peso di questa responsabilità l’ho sentita tutta. Avevo 24, 25 anni. E dopo cinque mesi della tournée, mi sentivo travolto. E lo spettacolo, intendiamoci, andava benissimo. Facevamo ogni sera sold out, ed era una cosa incredibile, specialmente per quel periodo. Poi, prima del COVID, ero in tournée con un mio pezzo, Non plus ultras, scritto dopo la morte di Ciro Esposito. E pure quell’esperienza è stata importante, perché ero completamente da solo».
Che cosa hai deciso a quel punto?
«Di prendermi una pausa dal teatro e di fare cinema e televisione per un po’. E mi è andata anche bene, nonostante il COVID. Ma, credimi, non ce l’ho fatta a stare troppo tempo lontano dal teatro. Mi mancava. Mi mancava profondamente, e così ci sono tornato».
Prima di andare in scena, si riesce a intuire come andrà lo spettacolo?
«Uno ci prova. Ogni sera non cambi solo città, cambi proprio pubblico. E così, anche se poco, cambia la sensibilità. E quindi devi impegnarti sempre al massimo. E prima di andare in scena, se stai attento, riesci a capire che tipo di spettatori ti aspettano. Dipende dal tipo di silenzio che si avverte. Se è un silenzio pieno o uno di quei silenzi disturbati, pieni di voci e di rumori. Il teatro riesce a sopravvivere proprio per questo, per la sua unicità. E secondo me, il cinema, soprattutto il cinema di oggi, come sistema e industria, dovrebbe imparare dal teatro».
Nonostante la tua lunga esperienza, hai trovato Eduardo De Filippo un po’ tardi.
«Sì».
Che incontro è stato per te?
«Eduardo è arrivato in un momento particolare della mia vita; un momento in cui forse avevo la maturità giusta per affrontarlo. Prima con Mario Martone, con Il sindaco del Rione Sanità, e poi con Edoardo De Angelis, con Natale in Casa Cupiello. E poi c’è stato anche Sabato, domenica e lunedì. Quelli di Eduardo sono classici, c’è poco da dire. E i classici vanno oltre l’autore stesso».
I classici possono essere cambiati o vanno rimessi in scena così come sono?
«Credere che un testo non possa essere adattato al presente e che non possa essere minimamente modificato è una follia. E, soprattutto, è un sintomo estremo di provincialità. Gli spettacoli di Eduardo vengono messi in scena in tutto il mondo, in lingue diverse. Pensa a Natale in Casa Cupiello. Secondo te tutti sanno che cos’è il presepe? Tutti lo conoscono come lo conosciamo noi napoletani? È chiaro che ci devono essere delle differenze, proprio per avvicinare il pubblico. Ciò che va preservato è il senso, il significato di fondo. Poi per carità, a ognuno di noi può piacere una versione particolare. Ce ne sono tante».
Tu hai fatto il tuo esordio con Io speriamo che me la cavo di Lina Wertmüller. Pensi che aver cominciato così presto, così giovane, ti abbia privato di alcune esperienze?
«Sicuramente sì, l’ha fatto. Ed è una cosa su cui ho finito per riflettere negli ultimi anni, dopo che anche mia figlia, Margherita, ha cominciato a recitare. Nel 2019 è stata la protagonista di Marghe e sua madre di Mohsen Makhmalbaf. Pensa che quando l’ha conosciuta Mohsen ha deciso di cambiare il nome della protagonista. Ecco, durante le riprese di quel film, più volte sono intervenuto e più volte mi sono fatto sentire, proprio perché è una cosa che avevo vissuto in prima persona».
E che cosa hai capito?
«Che quando ero piccolo recitavo perché mi divertiva, perché per me era un gioco. Solo dopo è arrivata la consapevolezza del lavoro, dell’impegno costante».
In un’intervista, hai detto che a 14 anni, per la prima volta, hai avuto paura davanti alla telecamera.
«Forse non è stato quello il primissimo momento in cui ho avuto paura, però sì. È successo. Sicuramente stavo crescendo, e crescendo cominciavo a vedere le cose e il mondo diversamente. Pure questo mestiere che amo così tanto. Dopo le scuole superiori, ho detto subito ai miei genitori che volevo continuare, che volevo andare avanti. E così mi sono trasferito a Roma, dove ho frequentato l’università e mi sono laureato in Scienze umanistiche».
Che cos’è che non cambia mai?
«La pressione. Quella che parte da te, dal mondo che ti circonda e dal pubblico».
Si impara a fare i conti con questa pressione?
«Devi, se è questo quello che vuoi fare. Questa pressione ha indubbiamente avuto un effetto su di me, e quando l’ho vista proiettata su mia figlia Margherita mi ha aiutato a riflettere. Non ho mai fatto nessuna fatica a rinunciare alla, che ne so, partita di calcio o alla festa. Però iniziare a recitare presto, da bambino, mi ha condizionato».
Sul set di Io speriamo che me la cavo, tu e gli altri bambini avete incontrato Paolo Villaggio. Ma vi aspettavate Fantozzi.
«Sì. (ride, ndr) Io ero cresciuto con Fantozzi; lo riguardavo ogni volta che lo davano in televisione. E così gli altri bambini. Pensa che sono andato dai miei genitori proprio per chiedere che cosa fosse successo a Fantozzi».
E Paolo Villaggio?
«Paolo teneva tantissimo a questo ruolo, l’aveva chiesto lui al produttore, Ciro Ippolito. Era convinto di poter fare bene. E aveva ragione. Era un attore estremamente preciso e professionale. Con noi bambini era gentile. Se facevamo i bravi, la sera ci faceva Fantozzi. E quando succedeva, noi eravamo felicissimi».
Perché hai deciso di continuare a fare l’attore?
«Quando ero bambino e mi chiedevano che cosa significasse per me recitare, rispondevo sempre la stessa cosa».
Cosa?
«“Mi fa sentire più di quello che sono”, ed è vero. Solo che all’epoca non sapevo formulare un pensiero più critico. Ora lo capisco meglio, e te lo confermo: se recito, se ho continuato a fare l’attore, è proprio per le tantissime possibilità che ho».
La paura, di cui abbiamo già parlato, può essere un motore creativo?
«Sì, può esserlo. Ma è importante fare attenzione. Perché la paura rischia di schiacciarti e di condizionarti profondamente. La cosa bella del film di Greta, La vita da grandi, è che parla della sfida che ognuno di noi deve affrontare per diventare adulti».
E che sfida è?
«Una in cui bisogna mettere in conto la possibilità di fallire. Una cosa che, oggi, viene vista come un problema».
E invece?
«Invece i fallimenti possono essere un’occasione. Per questo è fondamentale arrivare a patti con la propria paura, senza né sottovalutarla né lasciarsi travolgere».
Quando hai capito di essere un attore?
«Sono onesto, non te lo so dire. Sicuramente però ho capito abbastanza presto che questo poteva essere il lavoro della mia vita. L’ho capito quando ho scoperto di essere diventato padre. Io, poi, sono della vergine. Mi dicono che sono pesante, ma secondo me più che pesantezza è voglia di riflettere. E così, davanti alla notizia di avere una figlia, ho cominciato a riflettere sulla responsabilità che mi aspettava. E in quel momento ho deciso».
Che cosa?
«Che sarei stato un attore».
Foto di Gianluca Saragó e grafica di Claudio Montani.