di Gianmaria Tammaro
Il 5 dicembre su Prime Video è arrivata la seconda stagione. Da allora, non c’è stata nessuna novità su un possibile rinnovo. Eppure la serie diretta da Giuseppe G. Stasi e Giancarlo Fontana, sviluppata con Ludovica Rampoldi e Davide Serino, rappresenta un’eccellenza del piccolo schermo italiano: un’opportunità per cambiare e per sperimentare fino in fondo, oltre qualunque algoritmo. L’approfondimento.
Per qualcuno, The Bad Guy è solo un grande malinteso: una serie che nessuno aveva previsto, che nessuno si aspettava, e che è arrivata quasi all’improvviso, non annunciata, non pubblicizzata (come si deve), su Prime Video. In realtà, The Bad Guy rappresenta l’apice della catena alimentare televisiva italiana: è stata la risposta – anche questa non annunciata – alle preghiere di tanti spettatori e addetti ai lavori. Finalmente una serie dove quello che succede non è già stato detto, fatto, mostrato in altri mille prodotti simili. Finalmente una serie che ha il coraggio di rischiare, di sperimentare, di prendere i magistrati-eroi e di usarli per raccontare una storia. Una storia che, alla fine, parla di noi, dell’Italia, di quello che eravamo e di quello che siamo diventati, e poi di quello che speravamo di essere – avanzati, puri, intoccabili. L’antimafia è una cosa serissima, e The Bad Guy non si limita a riprenderla, a osannarla e a darla per scontata. La decostruisce. Sì, anche l’antimafia. E la usa come base solida su cui costruire il resto della trama.
Abbiamo un magistrato che dà la caccia al capo di Cosa Nostra, che è prima un eroe e poi il più grande dei cattivi, che viene spogliato della libertà e della dignità e che viene etichettato come mafioso e che, per questo motivo, decide di passare dall’altra parte per farsi giustizia da solo. Giuseppe G. Stasi e Giancarlo Fontana, i due registi, sono cresciuti guardando e amando un certo cinema e una certa tv. E questo loro amore – per il genere, per la Nuova Hollywood, per i classici – si vede. Non hanno paura di citare. Proprio perché sanno che una citazione non è, di per sé, la soluzione narrativa di una storia: è un’aggiunta, un contorno, la cornice in cui inserire il quadro. Con gli sceneggiatori Ludovica Rampoldi e Davide Serino, hanno creato qualcosa di nuovo. Sono andati in Sicilia, si sono circondati di attori bravissimi, li hanno inseriti in contesti e situazioni totalmente differenti rispetto a quelli per cui sono conosciuti (Luigi Lo Cascio, che interpreta il protagonista, si divide equamente tra scene comico-surreali e scene profondamente drammatiche) e hanno riscritto la storia stessa dell’Italia.
Siamo in un futuro prossimo, in cui è stato costruito il ponte sullo Stretto. La mafia continua a esistere e si scopre che c’è stata una trattativa con lo Stato. Intanto i vari personaggi che sfilano, dai mafiosi ai politici, ci parlano di noi, della nostra attualità, di quanto sia tutto estremamente ridicolo e assurdo. The Bad Guy non si fonda solo sui colpi di scena (che ci sono, e il finale della prima stagione ne è un esempio). Si fonda soprattutto sulla costruzione dei singoli momenti, sulla rincorsa che regia e sceneggiatura prendono per definire il contesto e per caratterizzare i personaggi. Nino Scotellaro diventa il cugino Balduccio Remora: si opera, si aggiusta il naso, cambia voce, sta più dritto; sembra, insomma, un altro. Poi c’è Luvi Bray, interpretata da Claudia Pandolfi, figlia di un magistrato morto ammazzato, straordinaria principessa del foro e centro, per buona parte della serie, della storia. Leonarda Scotellaro e Teresa Suro, interpretate rispettivamente da Selene Caramazza e da Giulia Maenza, sono le altre due protagoniste di The Bad Guy: facce della stessa medaglia, opposti in una cartina tornasole che passa dal fanatismo legale all’anarchia mafiosa.
Intorno a questi quattro personaggi, Stasi, Rampoldi e Serino (affiancati nella seconda stagione da Giordana Mari, Giacomo Bendotti e Fortunata Apicella) hanno gettato le fondamenta per un universo narrativo più ampio, incredibile, in cui c’è spazio quasi per qualunque tipo di ruolo. Se nella prima stagione, per esempio, Nino Scotellaro trovava la sua guida – più criminale che spirituale – nel Salvatore Tracina di Vincenzo Pirrotta, nella seconda arriva l’agente segreto di Stefano Accorsi: figlio più di Point Break che di qualunque altro sceneggiato italiano. E poi ci sono i camei, come quello di Aldo Baglio: sono lampi improvvisi, eppure sono in grado di catturare l’attenzione dello spettatore. E in questo viene fuori una delle caratteristiche più importanti di The Bad Guy: saper ribaltare l’ovvio, il già conosciuto, e trasformare il volto comico in un ritratto efficace di tensione e drammaticità. Lo stesso succede anche con il personaggio di Antonio Catania, Mariano Suro, ma in quel caso non si tratta di un cameo o di una comparsata più o meno breve. Catania è una delle costanti del racconto, e la sua trasformazione è piena di sfumature, di sprazzi diversi, che parlano del mafioso, del padre, del capo e dell’uomo anziano.
In The Bad Guy non c’è spazio per il moralismo senza quartiere di una certa produzione italiana: non si sente nessuna necessità di puntare il dito contro i personaggi e giudicarli; c’è una storia, e ci sono – chiaramente – le decisioni che vengono prese di volta in volta. Ma allo spettatore non viene mai suggerito né tantomeno imposto che cosa pensare. E pure questa, se vogliamo, rappresenta una novità per la nostra televisione (per carità, non è un caso isolato: prima ci sono state altre serie che hanno provato a spogliare la finzione di qualunque compito educativo; a volte ci sono riuscite, altre volte sono finite nel pantano delle polemiche e della politica, che non sapendo con chi prendersela spesso se l’è presa con chi lavora nell’intrattenimento). La storia di Nino Scotellaro si evolve nel corso delle puntate: da crociata si trasforma in una corsa contro il tempo, e da corsa contro il tempo, alla fine, si trasforma in un thriller. La bravura degli attori è uno degli elementi fondanti della serie. E Stasi e Fontana, che si è occupato anche del montaggio, fanno di tutto per farla esaltare ancora di più. Perché sanno, proprio come lo sanno gli sceneggiatori, che il contatto primario, l’imprinting dello spettatore, passa innanzitutto dalla credibilità di ciò che vede.
The Bad Guy è una serie complessa, nel senso che non è mai una cosa sola, che non si adagia sugli allori, che non usa sempre le stesse soluzioni; complessa perché sperimenta, perché prova a cambiare, perché non si accontenta. Complessa perché prende un tema su cui tanti hanno già provato a dire qualcosa e lo rende nuovo, differente, particolare. Complessa perché sa far funzionare insieme scrittura, regia e cast. Complessa perché è ricca ma non barocca, perché sfrutta il genere per dire la sua verità e perché non si ferma davanti a quello che può prescrivere un algoritmo o un produttore. Il suo più grande difetto, paradossalmente, è questo suo essere così spudoratamente creativa. La Indigo Film, che l’ha prodotta con gli Amazon MGM Studios e in associazione con Fifth Season, ne ha riconosciuto la forza e l’unicità. Altri, invece, l’hanno interpretata quasi come una minaccia: ne hanno parlato appena, l’hanno spinta il giusto, e se va bene è grasso che cola, se non va bene c’è poco di cui lamentarsi.
The Bad Guy è un esempio di ciò che vuol dire essere una produzione televisiva davvero libera. Per fortuna, ci sono altri casi in cui l’ultima parola viene data agli autori, ai registi e a chi si occupa della produzione creativa (pensiamo al lavoro che sta facendo Sky). Ma in un mercato che si sta rapidamente riempiendo di player diversi, tra canali lineari, canali a pagamento, piattaforme streaming e, più in generale, piattaforme on demand è difficile riuscire a muoversi in totale autonomia. Perché, appunto, c’è sempre il suggerimento dell’algoritmo, del dato, di chi – seduto in un ufficio – crede di sapere con assoluta certezza che cosa funziona e che cosa piace al pubblico (viene in mente Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti). I successi non si costruiscono a tavolino; non ci sono ricette da seguire. La bellezza di qualunque prodotto artistico sta nella sua natura contraddittoria: insieme al buono, viene il cattivo; e con le buone intuizioni arrivano pure le sbavature, le ripetizioni e le cose da correggere.
Al di là di qualunque considerazione sul metodo, sulla forma e sul contenuto. The Bad Guy ha fatto una cosa che sempre più raramente si fa: ha rispettato il suo pubblico; ha accettato la possibilità di essere criticata ed è stata fino in fondo sé stessa. Senza inseguire il plauso della critica, senza provare a riempire un vuoto che si è creato negli anni nell’offerta televisiva. Rispettare, dopotutto, non significa acconsentire tacitamente o peccare di ipocrisia. Rispettare significa essere convinti delle proprie decisioni e credere che dall’altra parte, davanti allo schermo, ci sia qualcuno in grado non solo di capirle ma anche di valutarle con giudizio. E quindi va bene l’intrattenimento, ma è importante ricordarsi che ciò che si fa, ciò che si scrive, è sempre rivolto a uno spettatore. The Bad Guy, del proprio pubblico, ha avuto una cura incredibile. Proprio perché l’ha trattato con onestà.
Le foto sono di Andrea Miconi.