di Gianmaria Tammaro
Il produttore Amedeo Pagani ricorda il primo incontro con il grande attore italiano nella sua villa a Velletri e il tempo trascorso insieme sul set de Lo sguardo di Ulisse, l’ultimo a cui prese parte Volonté. L’intervista.
Il 6 dicembre del 1994 moriva Gian Maria Volonté. Di lui restano i ricordi, gli aneddoti e l’esempio come attore; soprattutto, però, restano i racconti. Chi era Volonté, com’era con gli altri, in che cosa riusciva così bene. Amedeo Pagani, che ha prodotto Lo sguardo di Ulisse, l’ultimo film a cui Volonté aveva preso parte prima di morire, lo descrive come una figura straordinaria, piena, divisa equamente tra un carisma autoritario e una gentilezza innata. Dice che i suoi capelli bianchi e gli occhi perennemente spalancati creavano un contrasto fortissimo con la sua pacatezza. Quando venne ritrovato senza vita, nella vasca da bagno, tutta la troupe del film si raccolse intorno a lui, partecipando sentitamente al dolore.
Theo Angelopoulos, il regista de Lo sguardo di Ulisse, lo aveva inseguito per molto tempo e ora, all’improvviso, lo vedeva andare via per sempre. La testimonianza di Pagani ha il sapore di certi romanzi del Novecento, ancora ricchi di avventura e di valori: non è il rimpianto per il passato a renderlo così interessante, ma la nostalgia della memoria. E non c’è un modo migliore, oggi, a trent’anni dalla sua scomparsa, per celebrare Volonté. Pagani lo chiama Gian Maria, in modo estremamente affettuoso, e quando si lascia andare ai pensieri e ai dettagli dei ricordi sembra illuminarsi.
Quando ha conosciuto Volonté?
«Lo avevo visto già in altre occasioni, ma la prima volta che l’ho incontrato davvero è stato durante la preparazione del film. Theo (Angelopoulos, ndr) aveva fissato un appuntamento per la scelta dei costumi di Gian Maria. E così andai a Velletri, a casa sua, con il costumista».
E come andò?
«Quando Gian Maria vide tutte le proposte, non fu minimamente soddisfatto. Allora andò al piano di sopra della casa, dove c’era l'archivio di Eduardo (De Filippo, ndr) e tornò con alcuni abiti. E tra questi, alla fine, vennero scelti i suoi costumi di scena».
Angelopoulos fu d’accordo?
«Quando li vide sì. Era esattamente quello che voleva».
Che impressione le lasciò Volonté dopo quell’incontro?
«Era molto fascinoso. Aveva una voce sottile, a causa dell’operazione ai polmoni. Ma era gentile, accomodante. C’era un forte contrasto tra la sua immagine, con questi capelli bianchissimi e questi occhi spalancati, e il suo approccio delicato».
Tra questo primo incontro e l’inizio delle riprese quanto tempo passò?
«Poco, molto poco. Cominciammo praticamente subito. Volonté accettò con grande entusiasmo questo film, e c’era anche un pregresso: Theo l’aveva inseguito a lungo; lo voleva già nel 1980 per Megalexandros. Lo considerava il migliore tra gli attori italiani. Ma non erano mai riusciti a vedersi».
Perché Volonté amava così tanto questo ruolo?
«Lo sguardo di Ulisse nasceva da un pretesto semplicissimo, quello cioè della ricerca della prima immagine cinematografica. E questa prima immagine era stata prodotta dai fratelli Manakis. In pochi sanno che, mentre i Lumière presentavano i loro film, anche i Manakis facevano i loro esperimenti: riprendevano il passaggio delle truppe ottomane o le feste con i reali. Era un cinema diverso, alle origini del cinema stesso. Il protagonista del nostro film aveva il compito di ritrovare la prima immagine che era stata sviluppata. Ed era uno sguardo innocente. Gian Maria interpretava il ruolo del conservatore della Cineteca di Sarajevo, colui che, quindi, custodiva questa immagine. Per Gian Maria si trattava di un modo per chiudere la sua carriera».
Se lo immaginava anche lui così, come una chiusura?
«Io penso di sì. Mi disse che lo vedeva come un tributo finale a quello che aveva fatto. La verità, però, è che in quel periodo si era allontanato dal cinema; si era ritirato dal mondo. Si era un po’ stancato. E questo ruolo così preciso gli piaceva molto».
Quella gentilezza che aveva percepito durante il vostro primo incontro l’ha ritrovata anche sul set?
«Certo, certo. Terribilmente. C’è questa fotografia meravigliosa di Josef Koudelka, che seguì tutto il film, che ritrae Harvey Keitel e Gian Maria Volonté l’uno di fronte all’altro. Immortala la disputa tra due giganti del cinema. Da una parte c’è la prestanza fisica del marine di Keitel e dall’altra c’è la forza micidiale dello sguardo di Gian Maria. Harvey era terrorizzato e allo stesso tempo affascinato da Volonté. La sua grandezza veniva fuori dal nulla, era un effetto del suo carisma».
Che cosa ricorda dei momenti passati insieme lontano dal set?
«Il film era organizzato in un certo modo. Viaggiavamo tutti sullo stesso autobus, e abbiamo fatto centinaia e centinaia di chilometri. Pensi che l’operatore di Theo, un uomo estremamente spiritoso, affermava in continuazione che voleva essere pagato in chilometri e non in lire. (ride, ndr) Gian Maria stava con noi, andavamo a mangiare in queste trattorie dimenticate da Dio; credeva di ritrovare uno spirito di sinistra festoso, bohémien, pseudo-rivoluzionario se vuole. Era nel suo ambiente, ecco. E aveva ispirato un rispetto assoluto nella troupe. Lo adoravano tutti».
Perché?
«Perché non aveva nulla del divo, dell’attore super famoso e del personaggio pubblico. Era un compagno di strada, ma un compagno di strada eccellente. Aveva una gentilezza autoritaria. Mi ricordo che fumava e che beveva come un matto. All’epoca, sa, era così: si fumava ovunque, e si bevano dei liquoracci orientali. A Gian Maria, però, queste cose davano un’aria malinconica».
Siamo partiti dal vostro primo incontro. Invece quando c’è stato l’ultimo?
«Non c’è mai stato. L’ultima volta che l’ho visto era già morto. Io ero a Roma quando mi hanno chiamato dal set. Quando sono arrivato, era già stato composto. So che era stato ritrovato nella vasca da bagno, dopo un infarto. Attorno alla sua morte, erano riusciti a ricreare un’atmosfera di delicato misticismo; c’era una partecipazione intensa, sentita. Gian Maria aveva un’immagine sorridente, quasi beffarda. Fu sistemato in una cappella totalmente rossa. In sottofondo, fu messo Mozart. Ci fu, praticamente, un coinvolgimento totale. Fu come una festa per un amico che se ne andava in pace, lasciando a noi un vuoto enorme. Anche nel ruolo. Theo mi ordinò di trovare velocemente un sostituto».
E non fu facile.
«No. Io chiamai Mastroianni, e Mastroianni mi mandò a fanculo. (ride, ndr) “Adesso mi chiamate, disgraziati!” (Pagani imita perfettamente Mastroianni, ndr) “Sto girando Sostiene Pereira”, mi disse, “come faccio a venire”. E così contattai Erland Josephson. E lui accettò immediatamente. Il ruolo, però, cambiò. Non c’era più quella involontaria autorità, c’era una dolcezza enorme».
Lo sguardo di Ulisse, nel ‘95, ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes.
«E per noi fu un’enorme delusione, perché pensavamo di essere i migliori. E invece venimmo superati da Underground di Kusturica. Che, per altro, avevamo incontrato durante le riprese in un villaggio sperduto dei Balcani; lo trovammo in un’osteria con tutta la sua banda».
Cosa rimane, oggi, di Volonté?
«Tutto e niente».
Partiamo dal tutto.
«È rimasta l’immagine di uno dei più grandi attori che abbiamo mai avuto. Un attore camaleontico. E lo dico in modo assolutamente positivo. Non aveva un trasformismo alla Fregoli; era la sua interpretazione del personaggio a essere totalizzante. Se pensiamo ai western o ai film di Petri, Gian Maria diventava il personaggio rendendolo magnifico. Quello che faceva è totalmente diverso dalla mimesi fisica. Le capacità di Gian Maria non sono trasmissibili. E rimane, a oggi, un caso unico».
E perché, invece, niente?
«Perché non credo che sia nata una scuola Volonté. Qualunque tentativo di imitarlo sarebbe ridicolo. Abbiamo degli ottimi attori, per carità. Ma quel passo in più nel diventare il personaggio oggi non si riesce a ritrovare. Volonté ha interpretato qualunque tipo di personaggio, anche sgradevole. È difficile pensare che qualcuno possa raccogliere la sua eredità. Rimane come la speranza di incontrare un altro interprete come lui. Il paragone continuo con Mastroianni non aveva senso. La più grande particolarità di Marcello era non essere particolare, in alcun modo. (ride, ndr) Lui sapeva diventare il desiderio del personaggio. Il lavoro dell’attore è un lavoro complicatissimo, che non è facile né da seguire né da riprendere».